Agenzia di ricerca sociale Codici

1. Passaggio d’epoca

Conosciamo tutti il paradosso d’ingresso nel mercato del lavoro per un giovane, nella sua versione tradizionale, il celebre e frustrante “Cercasi ragazzo/a con esperienza”, letto in tanti cartelli posti sulla vetrina di esercizi commerciali, e ripetuto in varie forme negli annunci di offerta del lavoro. Generazioni di ragazzi e ragazze sono passati da quel messaggio sconfortante: il mondo li voleva a patto che possedessero l’unica cosa che non potevano avere, l’esperienza. L’inesperienza, cioè la loro condizione biografica, quasi anagrafica, era il peccato d’origine, rinfacciato da adulti che non volevano o non potevano fare gli adulti – accompagnare alle prove della vita – perché formare esperienza richiede tempo, soldi, impegno, pazienza, ovvero risorse in via di estinzione nel mondo adulto del lavoro, costretto a rincorrere il mercato e le sue ferree leggi di produttività.

Il paradosso – prima un’infanzia protetta dal lavoro per il timore dello sfruttamento, poi l’accusa di inesperienza al primo impiego – era tale che nel mondo, soprattutto quello dell’America Latina, si diffondessero i NATs, i movimenti che affermano il diritto dei bambini e degli adolescenti al lavoro, come ambito educativo e opportunità di autonomia, se non di sopravvivenza in alcuni contesti.

Ma quel cartello alludeva anche ad altro, perché umiliava l’istruzione e rivendicava il primato del lavoro come vero ambito formativo della persona: la combinazione “ragazzo/a + esperienza“ passava direttamente dalla biologia alle mansioni produttive, senza transitare dalla cultura. Il sottotesto era che questa poco servisse – forse anzi disturbasse – se si trattava di fare caffè, servire ai tavoli, far provare scarpe ai clienti, ecc.

I cartelli e gli annunci ancora si vedono qua e là, ma la situazione è parecchio cambiata. Alternanza scuola lavoro, stage, tirocini, apprendistato, esperienze all’estero, e poi volontariato, associazionismo, e così via: una condizione di esilio obbligatorio dall’esperienza lavorativa, semilavorativa o simillavorativa si è rotta. È vero che nel frattempo il crescente benessere famigliare ha esentato i ragazzi da alcune preziose occasioni formative domestiche un tempo dettate da necessità – occuparsi della casa o dei fratelli più piccoli, dare una mano all’azienda di famiglia, fare commissioni – ma va detto che per molti ragazzi e ragazze dal background migratorio queste mansioni permangono.

Tutto questo fa sì che l’inesperienza sia oggi forse meno scontata e diffusa, che l’esposizione alla realtà extrascolastica stia aumentando, che i campi di esperienza si stiano moltiplicando, certamente come opportunità, forse anche per chi ha meno chance di studiare, e quindi di mettersi in luce per i “titoli” conquistati a scuola. Prima quindi di rinfacciare ad un neodiplomato che non ha esperienze, credo che oggi vada esplorato meglio cosa ha fatto nei suoi ultimi anni, fuori dall’aula. E chiedersi da adulti se si è poi così esperti.

Cartello in un centro commerciale

2. L’esperienza nel cambio di paradigma dei saperi

In un mondo che cambia così rapidamente le istruzioni per l’uso ovvero quel che ci serve sapere per vivere si rinnovano di continuo, siamo tutti chiamati ad imparare, difficile poter contare su quanto abbiamo appreso da ragazzi. In questo senso sono proprio gli adulti i più fragili sul mercato del lavoro, e gli anziani i più disorientati, perché la velocità dei cambiamenti espone gli uni e gli altri alla fatica del rinnovo dei propri saperi, se non proprio all’esclusione dalla cerchia dei sapienti, evidente nell’uso di oggetti ad interfaccia digitale. Quell’inesperienza rinfacciata ad un ragazzo oggi suonerebbe ancora più paradossale, perché il mondo del lavoro stesso soffre oggi di “inesperienza”: non ci sono più rendite di posizione al sicuro dal cambiamento, chi lavora deve continuamente adeguare competenze, tecniche, conoscenze. E la sua esperienza, maturata in passato, probabilmente non è quella che serve a chi entra oggi al lavoro.

Da questa difficoltà a prevedere il futuro, a prefigurare mestieri e competenze di domani, deriva il suggerimento pedagogico, antico per la verità, cioè valorizzare l’esperienza, quale che sia. Chi sa dove andare punta alla meta, indifferente al tragitto, chi non lo sa deve interrogare ogni passo, per capire se indica una direzione plausibile, se si infrange in un ostacolo, se suggerisce deviazioni, se quel che si cerca si avvicina o si allontana. La prima è una condizione per così dire “esecutiva”, il privilegio di chi agisce istruzioni precise e vive solo una tensione al traguardo, sente gli elementi ambientali come sfondo o distrazione dalla meta, che è nitida all’orizzonte: la seconda è una condizione di ricerca, costantemente riflessiva, interroga ogni indizio, rinnova domande e direzione di manovra, vive l’ambiente come flusso di informazioni, impara dagli errori. La prima si basa su un sapere certo, immobile, da apprendere ed eseguire, la seconda apprende dall’esperienza, qualunque essa sia. E noi, tutti, siamo nella seconda condizione.

 

3. Appunti per accompagnare i pionieri al viaggio

Vedo ragazzi e ragazze di oggi un po’ come pionieri, costretti giocoforza a spostare la frontiera, muovendosi al buio, passo dopo passo, in un mondo che gli adulti stessi non sanno prefigurare, pur occupando posizioni di forza. Ragazzi esploratori coatti, adulti guide precarie, tutti esposti all’incertezza del viaggio.

Restiamo nella metafora del viaggio, che ci aiuta. Anche se il traguardo non è scontato, una meta serve, per non girare in tondo, a vuoto: i pionieri vanno interrogati su desideri, aspirazioni, interessi, vocazioni, se gli adulti sono in dialogo con loro è questo che dovrebbero fare. E se i pionieri non lo sanno – spesso non lo sanno – sono le esperienze a dircelo, quelle in cui si riconoscono, in cui stanno bene, in cui si sentono efficaci, da cui avvertono di uscire cambiati, cresciuti: da genitori, insegnanti, educatori è questo cui dobbiamo stare attenti, fare da specchio alle vocazioni. Perché le esperienza parlano se le interroghiamo, se ci fermiamo a capire, se qualcuno da fuori ci dice come ci ha visti, se in classe, a casa o al lavoro qualcuno crea lo spazio per farlo. Nei viaggi contano le domande più che le risposte: cercare indizi, fare ipotesi e metterle alla prova, secondo una logica sperimentale, laboratoriale, applicata estensivamente. In un viaggio più cose sai fare meglio è, di qualunque tipo esse siano, dal fare i nodi al cucinare, dal conoscere una lingua al prestare il primo soccorso: ai pionieri servono tante esperienze, perché queste si possono tradurre in tante abilità, prima o poi utili. Sovraesporre alla realtà, non prevenire rischi, ecco come temprare i ragazzi. E se devi viaggiare è meglio non essere soli, perché insieme ci si aiuta, si moltiplicano le abilità e le conoscenze a disposizione ovvero le esperienze personali, ci si diverte, si diluisce la fatica. Istruzione semplice: stare tutti insieme, ai ragazzi viene naturale, agli adulti meno, impariamo da loro.

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