Giornalista e scrittore

 

Come si governa la memoria? Quali emozioni accompagnano l’atto di ricordare? Come si fanno i conti con la scena del passato?

Raccontarsela – La narrazione tra memoria e rimozione mette al centro il racconto del passato al tempo presente e gli effetti che induce in termini di emozione, rifiuto, identificazione, ascolto. La memoria spesso è una macchina che costruisce racconti in cui c’è il passato, ma anche il modo in cui è stato vissuto. Che cosa è avvenuto, ma anche il modo in cui si è fissato nel tempo. Il Giorno della Memoria mette al centro la ferita della storia. Ma accanto sta anche come si costruisce quel racconto e perché.

 

Proponiamo un breve intervento di Paolo Rumiz e un estratto dal suo Gulashkanone (Feltrinelli, 2017).

 

«La prima volta che ho avuto paura per i destini dell’Unione europea è stato quattro anni fa, quando – visitando i diversi fronti del conflitto in occasione del centenario – ho notato come la memoria della Grande guerra, comprensibilmente diversa di Paese in Paese, non assumesse mai una dimensione sinfonica e unitaria nemmeno a livello istituzionale. Non solo: per timore di irritare questo o quell’ex belligerante, gli organismi istituzionali di Bruxelles avevano intimato ai loro dipendenti di non affrontare mai il tema in sede pubblica. L’evento principe del ventesimo secolo veniva insomma rimosso senza troppi pensieri e si perdeva l’occasione irripetibile di ricompattare i Paesi membri riflettendo sulla ricorrente propensione dell’Europa al suicidio. Ne consegue che il sismografo di un terremoto geopolitico talvolta si attiva sul fattore memoria molto prima che su quello economico.»
 


 
«Mia nonna odiava il termine Grande Guerra. Diceva che la chiamano così solo quelli che la vincono, e aveva ragione. Ma nonostante tutto c’è qualcosa che rende grande, anzi smisurata la guerra del Quattordici-Diciotto. La capacità dei nostri vecchi di restare individui e di sfuggire al tritacarne, l’orrendo Gulaschkanone, costruito solo per trasformarli in numeri. Essi seppero ridere e cantare anche nelle situazioni più estreme. Alla fine della guerra ricominciarono la loro vita nonostante l’orrore subito, fecero figli, coltivarono la terra, garantirono la continuità del mondo dopo la Catastrofe. Ma soprattutto essi seppero narrare, furono gli ultimi testimoni di una formidabile cultura orale.

Quando mi son messo a raccogliere lo storie di questi nostri italiani “redenti” che la guerra l’hanno perduta, non ho dovuto faticare molto, perché la voce di questa mia ricerca si era sparsa immediatamente e sono stati i triestini stessi a inondarmi di testimonianze. Era come se si fosse rotta una diga. Le soffitte e le cantine dei miei concittadini si svuotavano, davano aria a una memoria troppo a lungo negata, e sul mio tavolo piovevano pezzi di storia sotto forma di epistolari, cartoline, medaglie, fotografie, diari, onorificenze, così tanto materiale che ho dovuto chiedere aiuto a degli storici per schedare il tutto e il giornale di Trieste ha dovuto inventarsi pagine speciali capaci di contenere tutta quella meraviglia. Ma alla fine le storie più belle sono stati i racconti orali. Le testimonianze dei protagonisti ripetute a voce da coloro che le avevano ascoltate, figli, nipoti o pronipoti.»

Gulashkanone, p. 38.

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