È il giugno 1938. Vittorio Foa è in carcere per antifascismo da tre anni.
Il suo giudizio sul libro La crisi della civiltà dello storico Johan Huizinga, pubblicato nel 1938 rappresentò un grido d’allarme per ricordare il valore irrinunciabile della libertà e della dignità – è aspro. Perché? L’idea è che la consapevolezza della sconfitta deve essere stimolo a rinnovare e a trasformare radicalmente il proprio profilo politico-culturale. Rifondare, infatti, nasce dal dare un nuovo ordine alla cassetta dei propri strumenti culturali e politici, dal cambiare il proprio scaffale di referenze culturali, librarie, concettuali. E sfidare il presente, sottolinea Foa, non è rimpiangere il passato ma avere nostalgia di futuro.
Il fatto è che l’Huizinga appartiene a quella categoria di piagnoni organicamente incapaci di intendere il momento storico attuale non soltanto nel suo aspetto ufficiale ed apparentemente trionfante, ma in tutta la complessità delle forze che lo agitano e lo dividono: una generazione cullata e cresciuta nel pacifico godimento di istituzioni e valori che sembravano intangibili, e nella fiducia del loro indefinito progresso, non si è più riavuta dal colpo inferto a quel mondo dalla grande guerra, ed ha mostrato il più penoso disorientamento di fronte agli attacchi del dopoguerra. E l’eterno assalto dei nuovi venuti e l’eterno lamento degli spodestati reso questa volta più acuto dalla veemenza ed animosità dell’aggressione: a questi ultimi riesce molto più comodo gridare che la civiltà va a rotoli piuttosto che confessare la loro incapacità ed impotenza. L’impotenza dei piagnoni si esprime nel fatto che essi non riescono neppure a chiedersi a quali reali esigenze risponde l’opera dei loro avversari, quale è la loro volontà, il loro reale pensiero al di sopra delle loro stereotipe dottrine: come si fa a combattere un nemico che non si conosce? A differenza dei piagnoni noi (dico noi perché spero bene che ci sia anche qualche altro che la pensi come me) non crediamo ad azioni irrazionali e ci poniamo il compito di riconoscerne la razionalità per trarne la norma della nostra azione. Fra i piagnoni e noi corre un abisso, ed è un abisso formato dai nostri comuni avversari: i piagnoni li precedono, noi li seguiamo; non si tratta evidentemente di anteriorità o posteriorità cronologiche (vi sono piagnoni di 16 anni) ma puramente ideali: i piagnoni si lamentano sul loro piccolo mondo crollato, noi facciamo nostre le esigenze che i nostri avversari si sforzano di servire e le arricchiamo di nuove (anche se eternamente nuove) più alte più complesse esigenze. I piagnoni contrappongono alla storia il loro modello astratto di civiltà, noi per contro ci sentiamo parte integrante ed attiva del nostro tempo e non possiamo ripudiarlo, anzi lo sentiamo tanto più nostro quanto più in apparenza sembra darci torto. Questo atteggiamento spirituale non è freddamente, deduttivamente ricavato dal filosofema della razionalità del reale, e nemmeno ci commuove più che tanto il pathos racchiuso nel superbo detto del filosofo: «A chi vi domanda se la libertà ha un avvenire rispondete che essa ha di meglio, ha l’eterno»; esso è inerente alla stessa nostra posizione nell’attività pratica e si fonda su giudizi della situazione specifici autonomi materiati di concretezza. La sostanza della nostra fiducia è data dalla lieta e sicura constatazione che i nostri avversari, gli attivisti, lavorano per noi, anche se la «positività» del loro lavoro acquista un senso soltanto dall’opposizione e dal superamento loro, ciò che spiega l’inconciliabilità del contrasto; la concordia discors si verifica sul piano della storia anche nel regime assoluto più ferreo; ma non vi è altro modo di servire la missione inconsapevolmente comune che quello di obbedire ai propri ideali senza scrupolo di opposizione e di contrasto.
Vittorio Foa