Nell’epoca della disintermediazione, caratterizzata dalla perdita di ruolo dei soggetti che svolgono una funzione di intermediazione, nel circuito della rappresentanza democratica così come in quello della rappresentanza degli interessi organizzati, la capacità di partiti e associazioni di rappresentanza di interpretare interessi, identità e aspettative dei soggetti che avanzano domande verso il sistema politico nelle polity democratiche si è drasticamente ridotta. La rivoluzione tecnologica che ha portato alla diffusione di internet e alla nascita dei social media ha ulteriormente aggravato tale perdita di ruolo, generando l’illusione che un rapporto più diretto fra cittadini, imprese e decisore pubblico – che a sua volta si identifica sempre più in leadership politiche fortemente personalizzate – possa meglio corrispondere all’idea di una democrazia funzionante. In realtà non è così. E se è vero che le trasformazioni sociali che hanno indotto i cambiamenti ai quali assistiamo non possono considerarsi un demone da sconfiggere ma una realtà con cui fare i conti, è altrettanto vero che un’esagerata perdita di ruolo da parte di partiti e associazioni di interesse non può che nuocere alla qualità delle nostre democrazie.
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Il crescente potenziale di individualizzazione che nel corso degli ultimi decenni ha consentito ai cittadini, in virtù di una maggiore competenza (vera o presunta che fosse), di elaborare in maniera sempre più autonoma aspettative e domande rivolte al sistema politico, da un lato, ha reso meno rilevanti gli attori della rappresentanza politica e degli interessi organizzati, sottraendogli il monopolio nei rapporti con il decisore pubblico che in passato avevano ampiamente esercitato, e dall’altro lato, ha creato l’illusione che la cosa pubblica non abbia un ruolo così fondamentale nello sviluppo dei piani di vita degli individui.
Ma siamo sicuri che una buona democrazia sia quella in cui il rapporto fra cittadinanza e decisione pubblica non abbia bisogno dell’intermediazione di partiti e associazioni di interessi? Una relazione diretta fra cittadini e leader politici, sempre che si possa realizzare, può essere sufficiente a garantire capacità di risposta (responsiveness) e responsabilità (accountability) di chi governa rispetto agli interessi (e alle identità) presenti nella società? I singoli individui, come lavoratori o come imprenditori, possono davvero confrontarsi con le logiche di governo senza scontare le asimmetrie informative esistenti fra governanti e governati nella gestione della complessità delle politiche pubbliche?
Anzitutto non dobbiamo commettere l’errore di guardare ai cambiamenti in atto, che sono anche il segno di inevitabili trasformazioni sociali, sintetizzandone le tendenze con rappresentazioni che rischiano di essere caricaturali. Occorre infatti essere consapevoli che i cambiamenti in atto, con le contraddizioni e i paradossi che li contraddistinguono, costituiscono utili indizi per andare alla ricerca di nuove chiavi di lettura.
Consideriamo il mondo del lavoro, che sta tumultuosamente cambiando: se è vero che all’orizzonte si profila una jobless society in cui il contributo del lavoro sarà meno centrale che in passato, è altrettanto vero che le forme del lavoro di oggi sono così estemporanee e molteplici da rendere le modalità con cui tradizionalmente misuravamo l’occupazione non più adeguate alla realtà. E qualcosa di simile avviene anche nel mondo politico, a sua volta protagonista di straordinari cambiamenti. Se infatti è vero che in molte democrazie avanzate si è dovuto assistere alla formazione di governi sostenuti da forze politiche di orientamento opposto, tradizionalmente alternative le une alle altre, è altrettanto vero che le fratture dell’attuale campo politico (integrazione europea, euro, gestione del debito pubblico, emergenza immigrazione) vedono su fronti contrapposti da un lato i partiti e movimenti nazionalisti, populisti ed euroscettici, e dall’altro quelli che si richiamano alle tradizionali famiglie politiche dei progressisti e dei conservatori, oggi accomunati dal medesimo senso di responsabilità verso le istituzioni della democrazia rappresentativa che avevano contribuito a far nascere.
Ragionare sugli effetti della disintermediazione, quindi, significa non rassegnarsi all’idea che le democrazie di domani sperimenteranno necessariamente un’involuzione demagogica per cui la politica tenderà ad esaurirsi nel rapporto diretto fra cittadini e leader politici, ma andare alla ricerca delle nuove forme di rappresentanza che partiti e associazioni di interesse sperimenteranno come adattamento inevitabile nel contesto di regimi democratici soggetti a profonde trasformazioni. Anzitutto rispetto a quei processi di costruzione di nuove identità collettive, sia politiche sia legate agli interessi dei nuovi gruppi sociali, a partire dalle quali avranno origine nuove forme di re-intermediazione. Con la consapevolezza che, rispetto al passato, non saranno più identità sorrette da ideologie con un connotato di classe, ma forme di etero-riconoscimento declinate rispetto alla natura funzionale dei nuovi processi di produzione economica e sociale.
Partiti e associazioni di interesse saranno quindi costretti a reinventare le modalità attraverso le quali svolgere le loro abituali funzioni di aggregazione e mediazione di interessi e identità. Una sfida che dovrebbe essere avvertita soprattutto dai partiti di sinistra e dalle organizzazioni sindacali, storicamente più sensibili all’allargamento dei diritti di cittadinanza e all’estensione dei sistemi di welfare che la crisi economica e finanziaria di questi anni ha messo in discussione.