La Russia è un paese con un passato imprevedibile
Yuri Nikolaevich Afanasiev
Il centenario della Rivoluzione Russa, che ricorre questo Novembre, è una data che pone un dilemma sulla sua celebrazione: come dialogare con uno degli eventi più importanti della storia del ‘900 senza incorrere in vuote esaltazioni o denigrazioni facili? L’esperienza del 1917 ha influenzato significativamente la storia del XX secolo, ma valutarne criticamente l’impatto nella costruzione e nella memoria della storia europea è un’operazione difficile, inevitabilmente condizionata dalla fine della guerra fredda e dal crollo dell’URSS. Oltre il confine, questo dilemma è particolarmente sentito nella Russia di Vladimir Putin, dove la necessità di preservare l’unità nazionale prevale sulla possibilità di celebrare uno dei momenti più importanti della storia del paese.
Manifesto di propaganda russa.
Nepomniashij, “Fertilizzanti in primavera per un buon raccolto d’estate”, 1977.
A differenza della rivoluzione del 1789 per la Francia, il nuovo stato nato dalle ceneri dell’URSS non si è riconosciuto apertamente con il portato storico del 1917, mantenendo nel ricordo una certa ambivalenza di fondo. Se il centenario è occasione di dibattito in Europa, per la società russa la questione è molto più spinosa e rischia di porre dei seri problemi di legittimità al potere di Putin. In che modo parlare della Rivoluzione d’Ottobre nella narrativa nazionale russa evitando facili divisioni? Astenersi dal segnare in qualche modo un evento così importante sembrava pressoché impossibile, un evento che ha portato al potere un gruppo politico, quello comunista, di cui lo stesso Putin ha fatto parte. Eppure, il 25 Ottobre scorso il Presidente russo ha domandato ai giornalisti “e cosa ci sarebbe esattamente da celebrare?”. Come a voler negare che ci sia anche un’eredità culturale della rivoluzione d’Ottobre, una componente innegabile del profilo del paese, le cui celebri figure storiche, letterarie ed artistiche sono inevitabilmente legate al suo passato sovietico.
Quale Rivoluzione?
La prima difficoltà posta dal centenario risiede nell’atto stesso di celebrare una rivoluzione in quanto tale. Negli ultimi 20 anni lo spazio post-sovietico ha visto l’avvicendarsi delle cosiddette rivoluzioni colorate, movimenti che hanno determinato un distacco dall’ex madrepatria per un avvicinamento ai valori e sistemi politici occidentali. Il caso ucraino è particolarmente emblematico, un paese che ha visto la sua rivoluzione colorata nel 2004 e un’altra sollevazione nel 2014, portando i russi ad intervenire militarmente e a contribuire alla spaccatura definitiva della società e del suo territorio. Celebrare una rivoluzione vorrebbe dire, dunque, veicolare il messaggio politico che “ribellarsi è giusto”, ancor più che la possibilità di una rivoluzione colorata in Russia è argomento di discussione anche da parte di esponenti del governo (che ovviamente smentiscono).
In secondo luogo, la Russia nel 1917 ha affrontato non una ma due rivoluzioni, a Febbraio ed Ottobre, i cui propositi erano molto diversi. La prima di Febbraio fu quella che rovesciò il potere zarista e portò al potere il governo provvisorio – composto in maggioranza da moderati e favorevole alla continuazione delle belligeranze – contrapposto al Soviet (consiglio) di Pietrogrado, che chiedeva invece a gran voce l’uscita dal primo conflitto mondiale. La rivoluzione d’Ottobre fu il momento in cui presero il potere i bolscevichi, i Rossi, gettando il paese in una guerra civile animata dai Bianchi, i controrivoluzionari. Per il governo attuale, paradossalmente, risulta molto più semplice ricollegarsi alla tradizione della rivoluzione di Febbraio – più fedele alle istanze democratiche che hanno portato alla fine del regime sovietico – piuttosto che a quella d’Ottobre – un evento divisorio che ha portato ad anni di profondo disordine e instabilità.
Festival della luce a San Pietroburgo a tema 1917:
Un popolo con una grande storia e un futuro comune
“L’uomo russo ha bisogno di qualcosa in cui credere. Qualcosa di elevato, di sublime. Comunismo e impero sono radicati nel profondo del nostro cervello. Capiamo meglio ciò che è eroico. Il socialismo obbligava l’uomo a vivere nella storia… ad assistere a eventi grandiosi. E come se siamo spirituali, specialissimi! Non si è vista nessuna democrazia. Noi, lei, io, saremmo dei democratici? La perestrojka è stata l’ultimo grande avvenimento della nostra vita.”
Svetlana Aleksievič, Tempo di seconda mano, 2013
Con il crollo dell’Unione Sovietica, la popolazione russa si è dovuta confrontare con la fine di un’epoca caratterizzata da una ideologia, un’identità e una lettura della storia molto precise. Allo scollamento identitario causato dal collasso dell’URSS, è seguita la progressiva presa di coscienza di molti lati oscuri del suo passato, con cui quasi nessuna elite politica è ancora venuta a patti dopo più di 25 anni. Il risultato è una mancanza di consenso generale sul passato sovietico, tra fautori del crollo dell’URSS, comunisti nostalgici e giovani disincantati sul futuro del paese. Dal suo insediamento, Putin ha tentato di ricostruire una grande narrativa storica nazionale che limasse gli aspetti di rottura causati dal periodo sovietico e favorisse una lettura riconciliante – se non addirittura esaltante – di alcuni momenti della storia russa. Una delle operazioni più riuscite è stata sicuramente quella sulla Seconda Guerra Mondiale, per i russi la Grande Guerra Patriottica. Il governo di Putin, e quello di Medvedev poi, hanno reso il 9 Maggio – giorno della celebrazione – una festa popolare in cui ad essere celebrata è più la vittoria della memoria, un momento di riconciliazione con il trauma della guerra, di creazione di una comunità sociale, un modo di narrare la storia della Russia e le sfide che è stata chiamata a superare. Il passato diventa così uno degli strumenti principali per ricostruire l’identità nazionale, spesso eliminando problemi come colpa e responsabilità, e trattando argomenti scomodi come dei miti minori, piccole deviazioni di percorso in una storia epica e gloriosa (Elizabeth A. Wood, 2011).
I casi di uso politico della storia sono dunque piuttosto comuni. In tempi recenti, gli avventori della capitale russa non avranno potuto far a meno di notare la statua di 17 metri di Vladimir il Grande, inaugurata a Novembre 2016 e fortemente voluta da un altro Vladimir, Putin. La costruzione è stata fortemente osteggiata dagli abitanti, spaventati dalla mole del monumento, ma a scatenare scompiglio è stata soprattutto la problematicità della figura storica di Vladimir. Vladimir il Grande, detto Vladimir di Kiev, è infatti considerato come uno dei padri fondatori sia in Ucraina che in Russia, nonché colui che ha portato il cristianesimo nel mondo slavo. Erigere una statua simile non sembra un omaggio alla storia, ma risulta come un atto molto forte alla base del quale c’è una rivendicazione territoriale e culturale, nonché un grande segno di riconoscimento per la Chiesa Ortodossa.
Un altro esempio emblematico è il decreto del 2005 con cui il giorno di festa nazionale del 7 Novembre – giorno della Rivoluzione d’Ottobre – è stato abolito per preferirgli la data del 4 dello stesso mese. La ricorrenza storica alla base di questa scelta sembra essere sconosciuta a gran parte della popolazione russa, ma trattasi del giorno della liberazione della città di Mosca dagli occupanti polacchi nel 1612. Lo spostamento di data era stato caldeggiato da un appello al Parlamento dell’Unione interreligiosa russa: la resistenza del popolo moscovita era un momento meno problematico da ricordare rispetto agli eventi del ’17. Questo è il primo segnale della difficoltà di inquadrare la Rivoluzione d’Ottobre in una narrativa unificante.
Il momento al Principe Vladimir inaugurato a Mosca nel 2016
Bianchi vs Rossi
Vladimir Medinskii, Ministro della Cultura dal 2012, è colui che ha in parte aiutato Putin a sciogliere questo nodo fondamentale. La sua narrativa sul 1917 si basa sul principio della riconciliazione. Nel 2013, ha dichiarato che era indifferente scegliere chi avesse ragione, se i bianchi o i rossi. In alcuni discorsi pubblici successivi, ha proposto una versione semplificata della storia e, a suo modo, chiarificatrice, dove la guerra civile nasce dal conflitto tra due parti entrambe in lotta per il bene della Russia; ed il passaggio dal regime zarista allo stato sovietico è stato un momento storico particolarmente turbolento che ha fatto durare la guerra più del dovuto. Depotenziando totalmente il peso politico e rivoluzionario dei bolscevichi, Medinskij li presenta come coloro in grado di riprendere le redini dello stato Russo e ricostruirlo. I Bianchi sono invece ricondotti alle istanze della rivoluzione di Febbraio e a quelle post 1991, che hanno portato alla fine del regime zarista e dello stato russo nella versione sovietica. Ma quindi, chi ha vinto alla fine? Chi aveva ragione? Ovviamente c’è un terzo vincitore, e si tratta della Grande Russia, l’unica a rimanere invariata nella storia da ben prima dei Romanov fino ai nostri giorni.
Questa lettura semplicistica sicuramente assolve il suo compito di presentare la storia come un lungo cammino di potenza, evidentemente destinato a durare sotto il governo di Putin. Questa versione, però, è priva di riflessione critica, non rende giustizia alla storia di chi ha lottato per idee di futuro contrastanti, elimina completamente il ruolo delle minoranze di quello stato multi-etnico che era l’impero, prima, e l’URSS, dopo. La cosa veramente interessante però è un’altra: in questa lettura i bolscevichi sono la pars construens, mentre il ruolo destruens è affidato ai bianchi, che hanno prima interrotto il potere degli zar e dopo contribuito alla fine dell’URSS. Questo significa riconoscere apertamente lo stato attuale come una continuazione del regime precedente. Ed è proprio questo che non ha convinto del tutto Putin.
Il consenso prima di tutto
La politica di Putin riguardo il centenario è emersa più o meno chiaramente nel suo discorso annuale al Parlamento del Dicembre 2016:
“Il prossimo anno, il 2017, ricorrerà il centesimo anniversario delle rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre. Questo è un buon momento per guardare alle cause e alla natura di queste rivoluzioni in Russia. Non dovrebbero farlo solo gli storici e gli studiosi; la società russa ha bisogno di un’analisi obiettiva, onesta e profonda di questi eventi. Questa è la nostra storia comune e dobbiamo trattarla con rispetto. Si tratta di qualcosa di cui ha parlato il grande filosofo russo e sovietico Alexei Losev: “Sappiamo la strada spinosa che il nostro paese ha attraversato”, scrisse. “Conosciamo i lunghi e stancanti anni di lotta, desiderio e sofferenza, e per i figli della nostra madrepatria questo è il loro patrimonio natio e inalienabile”. Sono sicuro che la maggioranza del nostro popolo ha la stessa attitudine verso la loro madrepatria, e abbiamo bisogno di lezioni di storia in primis per la riconciliazione e il rafforzamento della concordia civile, sociale e politica che abbiamo raggiunto. È inaccettabile far prendere la nostra vita di oggi dal rancore, rabbia e amarezza del passato, nel perseguire i propri interessi politici e altri interessi per speculare su delle tragedie che coinvolgono praticamente ogni famiglia russa, non importa in quale parte della barricata fossero i nostri antenati. Ricordiamoci che siamo un unico popolo unito e che abbiamo una sola Russia.”[1]
Ecco, dunque, esplicitata la difficoltà nel celebrare un evento così importante, il cui ricordo suscita ancora sentimenti contrastanti e per cui è impossibile esaltarne gli elementi positivi a favore di una narrazione unilaterale, come nel caso della seconda guerra mondiale. L’uso della storia in termini propagandistici che emerge dai casi citati, qui presenta dei problemi di consenso molto forti, e il consenso è una delle risorse principali del potere di Putin. A differenza della posizione di Medinskij, non c’è una parte a prevalere sull’altra, c’è solo un lungo cammino di sofferenza in cui a trionfare è l’unità civile e politica della Grande Russia.