Università di Palermo

All’inizio dell’estate 2017 Amazon ha annunciato l’ultimo clamoroso colpo di mercato: l’acquisto della catena di supermercati bio Whole Food al prezzo record di 13,7 miliardi di dollari in contanti. Appena divulgata la notizia le due società hanno registrato un forte rialzo delle proprie quotazioni in borsa, rendendo di fatto l’intera operazione a costo zero. Ennesima riprova dei pronostici unanimi di successo che accompagnano oramai la marcia trionfale dei colossi del digitale.

Secondo gli osservatori la mossa di Amazon segnerebbe l’ingresso in grande stile delle piattaforme digitali nel comparto del cibo – da solo, un quinto dei consumi globali – e la transizione da un mondo di supermercati e (dove ancora resistono) negozi di quartiere ad un futuro di cibi venduti e consegnati grazie ad una sapiente combinazione di online e offline, sulla falsariga di quanto fatto da Apple con i suoi “store”. Insomma, sparite le librerie potrebbe essere giunto il turno dei rivenditori, piccoli e grandi, di generi alimentari.

E l’Europa? Nelle stesse ore in cui la notizia appariva sui giornali di tutto il mondo, il Parlamento europeo approvava la propria Risoluzione sull’economia collaborativa (relatore Nicola Danti, S&D, IT), in risposta alla Comunicazione della Commissione europea del giugno 2016, ultima tappa di un percorso articolato, che aveva visto l’adozione nei mesi precedenti di altri importanti documenti, tra gli altri in tema di piattaforme online e robotica.

Il dibattito, tra le istituzioni europee, ruota innanzitutto attorno alla strategia da impiegare. La Commissione ha scelto finora un atteggiamento molto prudente, puntando soprattutto sulla revisione delle regole europee di settore e del quadro normativo negli Stati Membri. Il Parlamento, per parte sua, ha adottato un approccio di respiro più ampio, premendo per l’adozione di linee-guida generali. In reazione alla retorica sulle regole che ostacolano la crescita e l’innovazione, la Risoluzione pone l’accento sull’importanza di regolamentare, nel presupposto che l’economia collaborativa possa portare crescita e offrire opportunità nuove solo se sviluppata in modo responsabile. Le piattaforme – continua la Risoluzione – possono svolgere un ruolo importante nella creazione di questo nuovo ambiente normativo. Per questo, occorre valorizzare la loro la capacità di offrire soluzioni e garanzie inedite (tecnicamente, di risolvere fallimenti del mercato), evitando regole inutili. Al contempo, ed in contrasto con tanta enfasi sulla pretesa autosufficienza delle piattaforme, il Parlamento chiarisce però che questa capacità di autoregolamentazione ha una portata limitata e che talvolta le regole servono. E, soprattutto, che self-regulation non significa immunità da regole ma anche assunzione di responsabilità.

Le premesse vanno senz’altro nel senso di un intervento ambizioso, ed anzi il Parlamento sembra aver trovato proprio nella proposizione di un modello regolativo nuovo a livello europeo il punto di equilibrio di un processo politico per tanti versi lungo e complesso, in cui si sono confrontate visioni contrapposte. Tuttavia la Risoluzione e gli altri documenti approvati finora risentono visibilmente delle profonde divergenze che attraversano l’Europa, legate a sensibilità politiche e, prim’ancora, a identità territoriali differenti. Ed è lecito nutrire più di un dubbio sulla possibilità di trasformare quanto fatto finora in regole precise che siano espressione di una visione coerente.

Secondo rilevazioni recenti, tre quarti delle piattaforme tecnologiche sono americane, anche grazie al potente volano rappresentato dall’ecosistema che si è sviluppato attorno alla Silicon Valley. Mentre l’Europa al momento è molto indietro e deve accontentarsi delle briciole, con stime che le accreditano appena un 3-4%. È un ritardo enorme, che può essere ancora più arduo da colmare di quanto gli stessi numeri non dicano, in un’economia in cui big data ed esternalità di rete rendono molto complicato scalzare chi riesce a consolidare per primo una posizione dominante sul mercato (winner takes all).

La posta in gioco è altissima. A leggerla da un’angolazione leggermente diversa, la vicenda di Amazon va ben oltre il comparto del cibo e può essere interpretata come l’ultimo tassello di un processo di integrazione verticale dell’intera filiera dei consumi che coinvolge tanto l’acquirente finale quanto l’impresa: se oggi il consumatore può comprare quasi tutto online, dall’altro lato un’impresa può gestire le proprie attività interamente dentro l’ecosistema offerto dalle grandi piattaforme digitali: una possibilità che porta con sé molti vantaggi ma anche diversi rischi. E sono molti i settori economici esposti ai rischi di “platform disruption”, con conseguenze potenzialmente devastanti per quelle piccole e medie imprese che rappresentano il punto di forza del tessuto produttivo italiano e di tanta parte di Europa.

Di fronte a questi cambiamenti l’Europa ha l’obbligo di superare le tante contraddizioni e difficoltà che hanno accompagnato fin qui la sua strategia su questi temi – condizionandone le scelte e producendo prese di posizione finora troppo timide e spesso discordanti – e di ripensare radicalmente le proprie politiche sull’economia digitale, senza limitarsi alla semplice revisione di discipline specifiche e senza delegare tutto ai diritti nazionali. Diversamente, l’unica voce che arriverà dall’Europa potrebbe essere quella della Corte di Giustizia, che dopo l’Opinione dell’Avvocato Generale, a breve dovrebbe pronunciarsi sul regime giuridico di Uber, con conseguenze sulle tante aziende che operano in base a modelli analoghi. Sarebbe una sconfitta per l’Europa che davvero non possiamo permetterci.

 


 

La sentenza della Corte di Giustizia nel caso Uber è stata emessa il 20 dicembre 2017, questo il link

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 37368\