Che cosa è rimasto dell’impegno? O forse la domanda più corretta è: che cosa è oggi l’impegno?
La parola impegno ha avuto molte stagioni e molte immagini. Quando diciamo “impegno” che cosa intendiamo con questa parola? Forse l’atto che più di tutti nel corso del Novecento ha dato forma all’idea d’impegno è rappresentato dalla firma dei manifesti degli intellettuali contro qualcosa. Centinaia di appelli, proclami che hanno spesso raccolto le stesse firme hanno segnato il corso degli ultimi centocinquant’anni. Potremmo chiederci: quell’atto ha segnato una differenza tra prima e dopo? Promuoveva una maggiore sensibilità oppure testimoniava solo dell’identità di chi formava? E oggi quello è ancora un atto che abbia un senso?
La sfida di futuro oggi implica la necessità di fare scelte che ridiscutono il modello di sviluppo più che la riparazione di un torto subito. La scelta non è più “etica”: è tra ciò che “conviene fare” e ciò che non conviene fare o continuare a fare. Non riguarda più essenzialmente le idee, ma le decisioni e, a monte delle decisioni, propone l’essenzialità della condizione del sapere, della conoscenza. Quando Ernesto Guevara de la Serna va a conoscere l’America Latina lo fa perché, per agire, occorre sapere, conoscere. Non basta ripetere o pronunciare uno slogan.
Impegno così non è più “avere ragione”, ma è soprattutto non accontentarsi di quello che già si sa, interrogare con acribia il proprio presente fino a metterlo a nudo andando all’essenziale delle cose. Non basta per questo farsi paladini entusiasti di un altro modello, ma è necessario “sapere” e per sapere è essenziale la disponibilità a mettersi in gioco e rompere il luogo comune. Speso non è essenziale fare dei gesti eclatanti, ma proporre un altro ordine di priorità.
Impegno non è avere un grande progetto complessivo, ma avere la preoccupazione del presente, domandarsi che cosa non sappiamo, come conoscerlo e come condividerlo. Impegno non è un atto eroico: chiede non forza, ma intelligenza, buona capacità di osservazione e fiducia nella possibilità della parola di farsi atto collettivo. Non è coltivare un’idea superomistica di sé, ma provare ad aiutare la nascita di un “nuovo tempo”.
C’è una storia dell’impegno che essenzialmente è una battaglia per la verità e per la giustizia. E’ quella che ha il suo archetipo nella discesa in campo gli intellettuali per chiedere “Verità e giustizia” per Alfred Dreyfus. Lì s’inaugura la stagione dei manifesti e delle firme come “chiamata alle armi” per la verità (una figura del fare politica in pubblico che è stata ripetuta innumerevoli volte da allora).
Poi c’è una storia dell’impegno in nome della battaglia contro le dittature. E’ quello che cresce nell’Europa degli anni ’30 e rilancia l’immagine della Francia come paese della libertà e del diritto, d’incubatore delle idee di eguaglianza e libertà, ma senza crederci per davvero (è in quel decennio, che si apre con la crisi del ’29 e si chiude con grande disfatta nel giugno 1940, che emerge con chiarezza come il mito della rivoluzione francese sia verticalmente decaduto mentre trionfa il mito del proprio mondo piccolo, da proteggere, della provincia che non vuole essere disturbata dalle grandi questioni della giustizia).
Giuramento della pallacorda, Jacques-Louis David, 1791
Poi quella voglia di “esserci e contare” si trasferisce nei grandi scontri per la decolonizzazione, a fianco dei nuovi protagonisti di un “sud del mondo” che chiedono di “esserci”. Questa volta impegno significa prestare la propria autorevolezza a fianco degli ultimi, favorire e sostenere la loro lotta contro i dominatori che, spesso, sono dello stesso gruppo sociale, culturale, nazionale, di chi si impegna per un domani migliore.
In tutto questo lungo percorso tuttavia la struttura dello scontro ha sempre riproposto una e una sola immagine: la necessità di una battaglia a fianco di qualcuno, in nome di una visione altruistica della società e del domani in cui si trattava di portare al tavolo del domani migliore gli esclusi. Impegno era una scelta “etica” prima di tutto e rispondeva al principio che tutti devono godere di diritti, nessuno escluso, e che perché ci sia giustizia occorre che i diritti di cui io godo siano non solo miei, ma estendibili a “chiunque”. Impegno era dunque una scelta “altruista”.