L’opinione pubblica internazionale non è rimasta indifferente all’incapacità del governo conservatore di Mariano Rajoy di affrontare la peggiore crisi di Stato che la Spagna democratica abbia vissuto negli ultimi quarant’anni. “La sfida secessionista”, l’ha definita la stampa spagnola. Negli ultimi cinque anni il movimento indipendentista catalano si è radicalizzato e sfidando la legalità spagnola ha convocato un referendum di autodeterminazione. Nel frattempo Rajoy, rivelando di mancare di una cultura política di ricerca del consenso, non ha fatto un passo per cercare una soluzione politica negoziata. Come ha ricordato recentemente Alfonso Botti, “la mediazione (intesa nella versione nobile di dialogo e approdo a soluzioni attraverso compromessi) sembra non trovare tradizionalmente posto”.
Al contrario, il presidente del governo spagnolo ha trasformato il problema catalano in un problema di ordine pubblico e pertanto è ricorso agli strumenti repressivi dello Stato di diritto spagnolo. Il 20 settembre si è avuto notizia di arresti di quattordici alti funzionari del governo catalano della Generalitat che avevano un ruolo nell’organizzazione del referendum, di perquisizioni a giornali e a tipografie, della mancata irruzione della polizia nella sede di un partito politico pro referendario senza ordine giudiziario frenata da centinaia di persone, di sequestri di materiale elettorale, di chiusura di pagine web colpevoli di fare propaganda illegale del referendum, dell’invio di circa diecimila membri delle forze di sicurezza (fra Guardia Civil e Policia Nacional) e della sospensione dell’autonomia finanziaria del governo regionale. A più di settecento sindaci (su novecento quarantotto) è stato aperto un caso giudiziario per aver annunciato di permettere il referèndum. Il Governo spagnolo ha annunciato che le manifestazioni pacifiche di protesta contro le detenzioni del 20 di settembre saranno considerate come un reato di sedizione – viene applicato de facto una dichiarazione di Stato d’eccezione senza il permesso del parlamento.
Come possiamo decifrare la posizione delle sinistre spagnole davanti alla sfida catalana?
Sicuramente il PSOE e la propria filiazione il PSC sono le forze che hanno vissuto il trauma più profondo. Nel 2003, quando Pasqual Maragall giunse alla presidenza del governo regionale, un giovane Rodrígo Zapatero promise di appoggiare un nuovo statuto per ampliare l’autogoverno della Catalogna. La proposta catalana fu presentata nel settembre del 2005, ed esprimeva l’accordo di tutti i partiti del parlamento catalano ad eccezione del partito popolare. Dopo un percorso tortuoso, fu approvato dal parlamento spagnolo e dai catalani con un referendum.
Fin dalle prime battute dello statuto catalano, il PP iniziò una campagna contro Zapatero, accusandolo di volere la rottura della Spagna. In Catalunya i socialisti governavano la Generalitat con una coalizione ecologista e postcomunista come Iniciativa per Catalunya Veds (ICV) e soprattutto con Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) partito indipendentista. Il PP raccolse firme in tutto il Paese, e non si distanziò dalle campagne catalano-fobiche che si produssero in Spagna. Nel 2010, il tribunale costituzionale – la maggioranza dei magistrati era d’orientamento conservatore – emise una sentenza contro lo Statuto amputandolo di vari articoli. Tutto questo accresceva il distacco dell’opinione pubblica , o almeno una sua parte importante, dalla giustizia del Paese.
1976. Manifesto per la libertà e democrazia in Spagna tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
I socialisti non seppero controbattere il discorso demagogico e populista del partito polare. Si può affermare che la visione nazionalista del partito polare acquistò un’egemonia culturale sulle pagine dei quotidiani e dei mezzi di comunicazione spagnoli. La vittoria del PP di Rajoy di alle elezioni del 2011 segnò subito un’involuzione e con le leggi sull’ordine pubblico (Ley Mordaza) e con quelle sull’educazione (per ispanizzare i bambini catalani).
Da allora la maggioranza dei dirigenti del PSOE si oppone a un referendum sull’autodeterminazione, giudicandolo improprio e incostituzionale.
Differente è il caso di Podemos. Nato dalle proteste degli Indignados madrileni del maggio 2011 ha difeso una formula ambigua: è per uno Stato plurinazionale che meglio garantirebbe le differenti identità di catalani, baschi e galiziani. Sulla stessa linea Izquierda Unida (IU), in difesa dell’autodeterminazione dei popoli iberici.
Alle elezioni al parlamento spagnolo del 2015 e 2016, la versione catalana di Podemos è risultata prima nella regione: il suo obbiettivo era quello di convocare un referendum in accordo con lo Stato. È chiaro che non vi può essere soluzione democratica al problema catalano senza un dialogo tra Stato e Generalitat. Lo hanno riconosciuto i rappresentati di varie organizzazioni politiche convocate a Zaragoza lo scorso 24 settembre 2017. Pablo Iglesias ha invitato il PSOE a uscire dal blocco conservatore per formare un governo di unità nazionale con Podemos e i vari partiti nazionalisti.
Il 1 ottobre i catalani hanno deciso di votare un referendum che non sarà riconosciuto in Spagna, tra misure eccezionali di polizia.
La crisi della democrazia spagnola torna a interrogare la coscienza democratica del mondo.