È cronaca delle scorse settimane la “furia iconoclasta” – non troppo furiosa, a dire il vero – che si è scatenata negli Usa a colpire i monumenti legati, anche in modo indiretto, al suprematismo bianco e ai suoi (dis)valori. Le decapitazioni di busti dedicati a Cristoforo Colombo si sono saldate con la rimozione di monumenti dedicati agli “eroi” sudisti (e schiavisti) della Guerra civile del 1861-65, in un’ondata polemica che ci dice molto delle fratture identitarie che corrono sul territorio nordamericano.
Al di là del contesto specifico in cui è maturato, tuttavia, il fenomeno è interessante perché rappresentativo dei modi con i quali la memoria pubblica di fatti anche lontani nel tempo resta viva nello spazio urbano – e una memoria pubblica viva è precisamente il motivo per esistono i monumenti.
I fatti statunitensi, infatti, esauriscono un ampio spettro di “uso pubblico della storia” nello spazio urbano. Da un lato la rimozione delle statue sudiste a Baltimora è una scelta di “politica della memoria” istituzionale, che ha un valore uguale e contrario all’erezione di un monumento o dell’inaugurazione di una targa. Si tratta di connotare lo spazio in cui vivono i cittadini nel senso che la parte che amministra la città reputa più “giusta”, o più utile politicamente. Quanto poi questa politica risulti divisiva e non costruttiva rispetto alla comunità a cui vuole rivolgersi, tutto sommato non ne cambia la sostanza.
Nel caso, invece, degli atti vandalici contro le effigi di Cristoforo Colombo, essi sono chiaramente sintomo di una volontà di rottura, della segnalazione di un dissenso dal basso, da parte di qualcuno che pensa di colpire una comunità nella quale non si sente rappresentato. Questo secondo gesto rimanda subito a un immaginario ribelle, antisistema o sovversivo rispetto a un ordine che si vuole negato o superato. Un fatto che, su scala più ridotta e con una portata simbolica molto più contenuta, avvicina maggiormente tale gesto alla “furia iconoclasta” – questa sì spesso davvero impetuosa e liberatoria – che ha accompagnato il crollo dei regimi novecenteschi.
Un’immagine della statua danneggiata
fonte: Repubblica.it
In entrambi i casi, la città emerge come spazio di radicamento/sradicamento di memoria pubblica, terreno di una “guerra ai simboli” che rientra nella più generale “guerra dei simboli” che attraversa le città almeno da che esiste la democrazia moderna. E, soprattutto, da quando l’idea di nazione ha propiziato la costruzione di uno spazio identitario il più possibile monolitico, nel quale la parte in grado di affermare i propri simboli poteva metonimicamente ergersi a rappresentante del tutto, lasciando i “vinti” senza voce.
Non esiste monumento, neanche il più ecumenico, che non sia sorto suscitando polemiche, sollecitando richieste di compensazione da parte di minoranze non rappresentate, lasciando indietro pezzi di storia che qualcuno avrebbe voluto vedere salvati dall’oblio.
E del resto, il monumento esiste per il presente e il futuro, per agitare intorno al passato le forze in gioco. E funziona quando la comunità che lo circonda lo “usa”: quando ne parla, quando lo rende meta di pellegrinaggio; ma anche quando ne fa oggetto della propria protesta, lo rende un terreno conteso, minacciato. Paradossalmente, anche quando lo abbatte.
La vera damnatio memoriae, ovviamente, sta nell’indifferenza. Pietre che non riescono più parlare, a catalizzare attenzioni, cure, passioni, esplosioni polemiche o scatti di difesa. A quel punto, la memoria pubblica esce di scena. Ed entra in gioco la storia. Perché naturalmente un monumento non è soltanto detonatore di memoria pubblica, è anche testimonianza di una sensibilità civile, di una cultura politica, della “civiltà” che lo ha messo lì pensando al futuro.
Un atto di “politica della memoria” nel senso della rimozione, come quello accaduto con i monumenti di Baltimora, da un lato porta allo scoperto come proprio il mondo di valori da cui si vuole prendere le distanze sia invece ancora pericolosamente vivo; dall’altro ci induce a riflettere sulla maturità del nostro – delle democrazie occidentali – rapporto con il passato, con la sua rappresentazione e con il suo uso pubblico. Mentre chiaramente ha senso continuare a lavorare sulle politiche della memoria in fieri, accettando le dinamiche concorrenziali che le regolano e operando nel presente per attivare o disattivare i simboli del passato che fanno la differenza fra una città inclusiva e una città escludente, a cosa serve abbattere la testimonianza di una “politica della memoria” del passato, se non a rinfocolare la polemica di chi ancora in quella memoria si riconosce?
Tutto sommato è più produttivo, per prendere davvero le distanze da certi simboli, raccontare e contestualizzare – alimentando il dibattito storiografico e costruendo una diffusa consapevolezza storica – che rimuovere e abbattere. Riconoscere che lo spazio della città è abitato anche da fantasmi del passato, che vale la pena di conoscere e capire, per non sentirci immuni dalle derive della storia.