Nell’immagine, una scena tratta dalla serie TV Peaky Blinders
There’s a devil waiting outside your door
(How much longer?)
There’s a devil waiting outside your door
(How much longer?)
And he’s bucking and braying and pawing at the floor
(How much longer?)
And he’s howling with pain and crawling up the walls,
(How much longer?)
[Nick Cave & The Bad Seed, Loverman]
Birmingham, primo dopoguerra.
Arthur è su una poltrona e guarda il fuoco. Le sue mani sono sporche di sangue: ha appena sventato un agguato e, nel reagire, è stato completamente posseduto da una crisi post-traumatica, da una violenza che viene da lontano – la musica che gli cresce intorno ci chiede se se ne andrà, un giorno, tutta quella violenza. Stringe il pugno della mano destra insanguinata, riprendendo il controllo di sé. Noi siamo lì, con lui, a dover gestire un doloroso intreccio tra il senso di rivalsa, di vittoria forse, e il dolore di scoprire, ancora una volta, cosa può rivelarci l’animo umano. Le note e le parole di Nick Cave chiudono così il terzo episodio della seconda stagione della serie tv Peaky Blinders.
And there’s a devil waiting outside your door
(How much longer?)
And he’s weak with evil and broken by the world
(How much longer?)
He’s shouting your name and he’s asking for more,
(How much longer?)
give him more, give him more.
Arthur è innanzitutto un reduce, è il personaggio che maggiormente trascina con sé, suo malgrado, i detriti della Grande Guerra, ed è il fratello di Thomas Scelby, protagonista della serie ispirata alla storia di una gang di allibratori realmente esistita (sebbene non sia mai dichiarato)1, come mi è stato segnalato nella prima conferenza dell’Associazione Italiana di Public History, nell’incontro dal titolo Il racconto della Storia. Un passato da leggere, scrivere e insegnare2.
Ho già avuto occasione di scriverlo3: l’attore che presta il suo volto a Thomas, Cilian Murphy, già ne Il vento che accarezza l’erba di Ken Loach ci aveva accompagnato nel groviglio antropologico che è la guerra permanente, in ogni sua forma, e in questo turbinio di scelte obbligate e faccia a faccia si sprigiona la complessità dell’uomo nel tempo, e in particolare nel secolo degli estremi e degli eccessi, il Novecento. Di quella che Antonio Gibelli ha definito la “matrice del secolo”, scrivendo, nell’accostare alla modernità in generale il primo conflitto mondiale come evento e come racconto, che “l’indicibilità e l’incredibilità sono il tratto distintivo di una realtà che offende la coscienza e ostacola la memoria”4. Sono molte, naturalmente, le narrazioni che hanno provato a fare i conti con lo shock della guerra, e che in qualche modo stanno costruendo un immaginario condiviso di eventi sempre più lontani, provando a scavalcare il muro di incomunicabilità incontrato, al ritorno, dai loro protagonisti. Una delle sperimentazioni più ambiziose e – credo – riuscite di Public History è stata, in questo senso, l’esperienza delle History-map5, un format divulgativo fatto di documenti sonori, visuali, dialoghi, interventi di esperti, che nella sua realizzazione aveva coinvolto storici e sceneggiatori, archivisti e attori, illustratori, professionisti della comunicazione. E che lanciava con forza l’idea di una “cultura a porte aperte” che sta prendendo forma ora nella nuova sede di Fondazione Feltrinelli, dove si terrà la prima edizione del Master in Public History6. La History-map dedicata alla Grande Guerra e, appunto, ai suoi detriti, si apriva con la tromba di Louis Armstrong e, verso la fine, si affidava alla potenza della letteratura per riflettere proprio sul tema della coscienza offesa, a partire da Addio alle armi di Ernest Hemingway:
“Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e dall’espressione invano. Le avevamo udite a volte ritti nella pioggia quasi fuori dalla portata della voce, in modo che solo le parole urlate giungevano, e le avevamo lette su proclami che venivano spiaccicati su altri proclami, da un pezzo ormai, e non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne non si faceva altro che seppellirla. […] Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e alle date.”
Una vignetta tratta dalle HistoryMap
È difficile restituire, qui, i momenti di commozione che ci hanno regalato queste parole, nelle lunghe prove e poi nella messa in scena della History-Map dal titolo Gente nostra, sangue nostro. Amare, lottare, morire per la Patria. Riprendevamo anche le riflessioni di un altro intellettuale che nel 1917 andò in guerra e ci andò con la lucidità di chi sa che la guerra è fatta di “piedi insanguinati, uomini storpi, ciechi e ubriachi di fatica”: il poeta Wilfred Owen. E ricordo con enorme emozione, dalla mia posizione di narratore appoggiato al leggio, il momento in cui l’attore – Ivan Giambirtone – leggeva la fine della poesia Dulce et decorum est.
Se potessi sentire, a ogni sobbalzo, il sangue
uscire gorgogliando dai polmoni che schiumavano,
osceni come il cancro, amari come un rigurgito
di piaghe disgustose, incurabili, su lingue innocenti –
amico mio, non diresti con tutto questo zelo altisonante
a bambini ardenti di una gloria disperata
la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est
pro patria mori.
“Scrissero un tempo che è dolce e meritevole morire per la patria. Ma in una guerra moderna non c’è niente di dolce né di meritevole, nella tua morte. Morirai come un cane e senza ragione”, avrebbe scritto sempre Hemingway in Appunti sulla prossima guerra, pochi anni prima che scoppiasse il successivo conflitto mondiale che, di nuovo, sarebbe stato ammantato da esperienze ritenute incomunicabili e, con il trascorrere dei decenni, raccontato incessantemente da ogni forma di narrazione. Il cinema – che continua a rivelarsi un potentissimo generatore di immaginario – è stato in questi anni uno straordinario veicolo di immedesimazione e di trasmissione di “senso del passato”. Come ho raccontato7, noi dell’associazione Deina8 iniziamo e chiudiamo il nostro percorso di formazione immersivo con la lunga scena iniziale di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, sprofondando nei dilemmi di un contadino – monsieur LaPadite – che nasconde una famiglia di ebrei e si trova a dover scegliere tra la sua sopravvivenza e quella dei suoi protetti.
Continuo a credere che quasi nient’altro possa mettere in crisi un uomo o una donna del nostro tempo quanto queste grandi narrazioni su temi enormi come quello della scelta, del trauma, della violenza della Storia e nel presente, e della sua rappresentazione. E gran parte delle questioni qui accennate sono confluite in Dunkirk di Christopher Nolan, ora nelle sale e considerato da molti un capolavoro. È il racconto, mai voyeuristico, dell’angoscia dell’attesa, di quando la tua vita è in mano a qualcosa di con incommensurabilmente più grande di te, che sei solo uno dei quattrocentomila soldati incagliati, inchiodati dalla Wehrmacht sulla spiaggia e sul primo lembo di mare di Dunquerque, nel 1940. Attorniato dal Nemico, che ti massacra ma non è mai nominato, insultato né mostrato: è come se la guerra fosse una calamità naturale in grado di svelare gli aspetti terribili e quelli meravigliosi del nostro essere umani.
E non c’è spazio per grandi eroismi – le scene di coraggio si perdono quasi tutte nel turbinio della grande Storia –, non c’è spazio neanche per fermarsi a pensare. Perché l’istinto di sopravvivenza, come ricorda un personaggio del film, “è paura, è avidità, è il destino che ti preme nelle budella – è merda”. Siamo noi, i protagonisti di Dunkirk. Noi civili, che non sappiamo quanto terribile può essere la guerra, noi a cui sembra di sfiorarla – di intuirne un pezzo, almeno. Noi, che ringraziamo il destino ogni giorno per essere nati in tempi e in luoghi in cui la guerra è solo rappresentata, o arriva come un detrito – per ironia del presente – dal mare, negli occhi di chi cerca riparo qui, da noi. Noi, che piangiamo a vedere un uomo traumatizzato, uno che non lo capisce, uno che prova a proteggerlo.
Truppe francesi tratte in salvo su un mercantile britannico
4 giugno 1940
“È un vigliacco, signor Dawson?” chiede un ragazzino a proposito del personaggio interpretato – ancora – da Cilian Murphy, che non vuole più tornare indietro, sulla spiaggia di Dunquerque. “È traumatizzato, George”, risponde con amarezza l’uomo che, con la sua barca, sta cercando di andare a salvare qualche decina di suoi connazionali oltre la Manica. Un uomo che conosce la guerra e il lutto, e che ha visto certamente gli esiti di quella prima. Uno di quelli che, insieme alle donne e ai ragazzini rimasti sull’isola ad aspettarli, guardano i loro ragazzi che cercano di ripiegare verso la casa, verso la “patria” che si sentono di aver tradito nella rotta. Con il trauma che già si intreccia con il bisogno di rivalsa, perché il diavolo – il nazismo, la guerra – è sempre in attesa, fuori dalle nostre porte, e al di là del mare.
1 Cfr. Evan Smith, “’Brutalised’ veterans and tragic anti-heroes. Masculinity, crime and post-war trauma in Boardwalk Empire and Peaky Blinders” in edited by Michael J.K. Walsh, Andrekos Varnava, The Great War and the British Empire. Culture and Society, Routledge, New York 2017, pp. 279-290; Carl Chinn, The real Peaky Blinders. Billy Kimber, The Birmingham Gang and the Racecourse Wars of the 1920s, Studley, Brewin 2014. Ringrazio Eleonora Moronti per la segnalazione.
2 https://events.unibo.it/ifph2017/aiph-23
3 https://fondazionefeltrinelli.it/schede/ebook-collana-quaderni-il-passato-al-presente-paolo-rumiz-carlo-greppi-david-bidussa-27-01-2016/
4 Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del paesaggio mentale [Terza edizione accresciuta], Bollati Boringhieri, Torino 2007 (I ed. 1991), pp. 238 e 75.
5 https://fondazionefeltrinelli.it/research/progetti-speciali/lagrandetrasformazione/gt-history-map/
6 https://fondazionefeltrinelli.it/publichistory/
7 http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/non-restare-indietro/