I (rari) commenti istituzionali a quanto accaduto a Roma tra il 19 e il 24 agosto 2017 si trincerano dietro il valore “legalità” per giustificare gli sgomberi nonché le modalità degli stessi: “andava ristabilita la legalità” ha affermato la prefetta di Roma e “non si accoglie senza legalità” è la linea adottata dal Governo.
Molto è stato scritto, e bene, in questi giorni sul fatto che “legalità”sia il concetto cui sempre più spesso si ricorre per mascherare l’uso della violenza, fisica e sociale, nei confronti degli ultimi, degli esclusi, o – più prosaicamente – dei poveri.
E altresì sul fatto che il binomio legalità/giustiziasi infrange quando degli ultimi si tratta, e in particolare dei migranti.
A tal proposito, solo con riferimento al tema specifico dei fatti romani, la Corte Costituzionale ricorda che è “doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione”, individuando in “tale dovere, cui corrisponde il diritto sociale all’abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione, un connotato della forma costituzionale di Stato sociale”: eppure, i rifugiati di via Curtatone sono stati sgomberati senza che fosse tenuto in considerazione il dovere di garantir loro il diritto all’abitazione, e anzi rimettendo direttamente alla S.r.l. che gestisce il palazzo sgomberato, non già alle istituzioni, l’onere di trovare una soluzione abitativa per gli stessi.
Ma i fatti di Roma – in cui ad essere sgomberati sono stati etiopi ed eritrei alla maggior parte dei quali è già stato riconosciuto lo status di rifugiati politici, nemmeno sans papier frutto della (legalissima) distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici – sono la rappresentazione plastica di una più sistematica discrasia tra i principi che l’Italia e l’Unione Europea sarebbero tenuti a rispettare e il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo disciplinato dalle leggi in vigore.
Appare utile un grossolano ripasso: a chi “per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale” è costretto a fuggire dal proprio paese di origine la Convenzione di Ginevra e le Direttive europee riconoscono il diritto a ottenere la protezione internazionale; tuttavia – per legge – tale diritto è riconosciuto solo una volta che il soggetto in questione abbia già raggiunto il luogo in cui presentare domanda di asilo.
In questo modo, la legge stabilisce che resti affare delle persone che fuggono dalle persecuzioni (e dei loro trafficanti) arrivare in Europa, con gli esiti catastrofici ormai noti; e già nel 1999 l’ECRE notava come “il miglior sistema europeo di riconoscimento del diritto d’asilo sarebbe comunque ben poca cosa, se alle persone in cerca di rifugio non è data alcuna possibilità di beneficiarne fino a quando non abbiano raggiunto la stessa Europa”.
La normativa vigente – e in particolare il c.d. Regolamento Dublino – prevede altresì che le persone in questione non possano liberamente decidere dove recarsi, ma siano costrette a rimanere nel paese di primo arrivo.
A questo punto, il sistema italiano prevede che le persone siano“smistate” e inviate nelle strutture di accoglienza presenti sul territorio nazionale: la maggior parte viene accolta nei Centri di Accoglienza Straordinaria, ai quali non sono – legalmente – richiesti standard omogenei relativamente alle condizioni di ospitalità e ai percorsi di inserimento linguistico, scolastico e lavorativo. In tali strutture i richiedenti asilo permangono quali “ospiti”per il tempo necessario all’esame della richiesta di asilo; normalmente, per almeno un anno e mezzo.
Dopodiché, nel migliore dei casi – ovvero proprio quello degli etiopi e degli eritrei di via Curtatone, che hanno ottenuto il permesso di soggiorno in quanto rifugiati – le persone vengono nuovamente lasciate a loro stesse: e laddove la precedente permanenza nelle strutture di accoglienza non abbia consentito una reale integrazione – cosa che spesso capita, nonostante il lodevole lavoro, comunque non richiesto per legge, di parte delle realtà attive nel mondo dell’accoglienza – tali persone si trovano ad essere prive di tutele e di risorse, e così a disposizione dell’economia sommersa (vuoi lavorativa, vuoi abitativa).
Ecco, il paradosso del concetto di“legalità” applicato ai chi chiede asilo in Italia: i diritti sono negati durante la fuga dalle persecuzioni; i diritti non sono adeguatamente tutelati una volta che lo status di rifugiato è riconosciuto (e tantomeno quando la protezione internazionale è negata, cosa che in Italia nel 2016 è accaduta nel 61% dei casi); nel mezzo, non vi è alcuna reale attenzione normativa all’inserimento dei richiedenti asilo nel tessuto sociale. E dunque vi è il rischio, normativamente accettato, che il prodotto del sistema di accoglienza sia null’altro che emarginazione.
A ben vedere, dunque, la legalità non pare tanto l’effetto – rivendicato dalle istituzioni – degli sgomberi di Roma, bensì una causa degli stessi.
E’urgente che tale questione venga compresa, e che ci si adoperi per modificare le leggi (inadatte, ancor prima che ingiuste) riservate da Italia ed Europa a richiedenti asilo e migranti.
Manifesto tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli