Intervista a Francesco Pastore a cura di Andrea Zucca, ricercatore di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Nell’era della Quarta Rivoluzione Industriale la domanda di lavoro altera le richieste ai lavoratori. La dimensione dell’accesso a un’occupazione ha subito nel tempo modifiche che scardinano i tradizionali sistemi di formazione e occupabilità, secondo i quali ad un percorso formale di istruzione corrisponde una specifica mansione svolta per tutta la vita. Quanto richiede oggi il mercato del lavoro sembra essere invece un mix di competenze che si acquisiscono attraverso modelli esperienziali di apprendimento che alternano il formale all’informale e che consentono all’individuo, soprattutto ai giovani, di valorizzare i propri campi di esperienza e di acquisire competenze di natura interdisciplinare. In questo scenario i tradizionali sistemi di formazione non sono più sufficienti a rispondere ai bisogni e alle evoluzioni della società. È utopico affermare che lo sviluppo del sapere, ma ancora più delle competenze lavorative, possa avvenire all’interno di un unico e ben identificabile luogo in cui si implementa un modello di apprendimento fondato esclusivamente sulla trasmissione di contenuti.
Documento: apprendista che esercita le proprie competenze in fabbrica
Le work-based learning experience rispondono a tale necessità. Favoriscono un incontro tra la filiera dell’educazione e il mondo del lavoro permettendo lo sviluppo di competenze che si basano su una dimensione esperienziale e fattiva.
Francesco Pastore, professore associato di Economia all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e ricercatore all’Institute of Labor Economics (IZA), ci racconta, a partire dal paper “Getting It Right: Youth Employment Policy within EU”, quali pratiche possono favorire un incontro tra la filiera dell’educazione e il mondo del lavoro presentandoci le peculiarità del modello tedesco, giapponese e anglosassone, che possono essere presi come punti di riferimento per rafforzare i programmi di alternanza scuola-lavoro nel nostro Paese.
Il progresso tecnologico, assieme ad altri mega-trend di natura globale, sembra avere alterato la dimensione dell’accesso al mercato del lavoro. Oggi, per accedere all’occupazione, è utile un mix di competenze che sono l’esito di percorsi formativi non lineari in cui si fanno proprie conoscenze, abilità e saperi a partire dalle esperienze vissute, anche lavorative, dai percorsi formativi formali e dal vivere quotidiano. Lei è d’accordo con questa prospettiva?
Con l’avvio dell’era post-fordista e la de-standardizzazione della produzione, anche il lavoro cambia in modo radicale e quindi cambia il modo di formare le competenze lavorative. Si richiedono sempre più competenze che si formano solo attraverso l’esperienza lavorativa, ciò che segna anche un indebolimento dei sistemi classici di istruzione e formazione professionale. Il sapere non si forma più solo o tanto nelle aule scolastiche ed universitarie, ma sempre più anche in azienda, negli studi professionali e negli uffici. A pagarne maggiormente le spese sono i sistemi di istruzione cosiddetti sequenziali che immaginano la formazione delle competenze lavorative come successiva al completamento del percorso di istruzione. Nei sistemi informati al principio duale, invece, il sistema d’istruzione forma anche le competenze lavorative.
In tale contesto, quali pratiche, riforme e investimenti, oltre alla riforma della Buona Scuola, sono secondo lei utili per rafforzare ulteriormente un incontro tra la filiera dell’educazione e il mercato del lavoro?
Ne parlo diffusamente nel mio libro “Fuori dal Tunnel” oltre che in altri miei scritti. Occorre avviare al più presto attività di alternanza università lavoro e anche apprendistato universitario. Inoltre, occorre sviluppare attività di orientamento in uscita e di job placement scolastico e universitario per andare incontro alle esigenze formative dei giovani e accorciare la transizione al lavoro che è in Italia di una lentezza estenuante. Ho pubblicato da poco un articolo dal titolo “Why So Slow?” con riferimento al sistema di transizioni scuola lavoro in Italia. Immagino un giovane italiano che è nella fase della transizione e si sente frustrato come quando il computer, la macchina che sta usando, è troppo lenta e anziché aiutarlo lo rallenta.
Quali peculiarità del modello tedesco, giapponese e anglosassone possono essere prese come punto di riferimento e rappresentare elementi utili per lo sviluppo di policy nazionali indirizzate a un rafforzamento dei programmi scuola-lavoro?
Questi sono i tre regimi di transizione scuola lavoro più efficienti e veloci. Il sistema tedesco si fonda sul principio duale di cui parlavo prima. Occorre che la missione del sistema d’istruzione non sia la formazione solo dell’istruzione, ma del capitale a tutto tondo. Dovremmo chiamarlo: sistema di formazione del capitale umano. Il capitale umano, come spiegava il grande economista americano e Premio Nobel, Gary Becker, non comprende solo l’istruzione, ma anche le competenze lavorative generali e quelle specifiche al posto di lavoro. Non a caso, sempre più giovani italiani lavorano mentre studiano. Vivendo questi problemi sulla loro pelle capiscono che l’istruzione non basta e cercano di acquisire esperienza lavorativa. Spesso però lo fanno in modo maldestro. Dobbiamo aiutarli a farlo bene, ad esempio, nel campo più adatto al percorso che stanno facendo.
Il sistema giapponese, chiamato Jisseki Kankei, crea un ponte fra scuola e imprese. Le imprese consegnano le loro notizie di posti vacanti alle scuole che indicano i migliori candidati per ogni posto di lavoro vacante. In Giappone, il 30% circa dei giovani di ogni generazione trova lavoro in questo modo.
Il sistema anglosassone si fonda su un’idea più liberale. Nessuno può scegliere meglio dell’individuo interessato. Quindi, compito della scuola e dell’università è fornire le informazioni disponibili sui posti vacanti e poi lasciare alle parti il problema di trovarsi e piacersi. Il matching deve essere deciso dalle parti e sarà il migliore se avviene attraverso un processo di trial and errors. La scuola/università può aiutare colmando le asimmetrie informative fra datore di lavoro e candidato ad un certo posto di lavoro, fornendo lettere di raccomandazione rigorosamente cieche ai candidati perché siano davvero veritiere.