Su iniziativa del Parlamento europeo, il 6 maggio 2017 a Bruxelles è nata la Casa della Storia Europea, un museo che – in 4.000 mq di superficie espositiva – racconta il processo di integrazione europea, aspirando a diventare il nuovo punto di riferimento per la storia degli abitanti del vecchio continente. Trovare un modo per narrare nello stesso luogo la costruzione condivisa del progetto europeo e le diversità dei popoli che lo animano si è rivelata un’impresa molto complessa. Come raccontare il passato condiviso di memorie storiche separate?
Nel suo libro Comunità immaginate, Benedict Anderson spiega come i musei rappresentino uno degli elementi principali della macchina narrativa nazionale, ovvero i luoghi dove elaborare un racconto cronologico che fornisca il senso di appartenenza ad una comunità. Ma questo racconto unificante è spesso stato costruito a scapito dei momenti di frattura, delle minoranze, delle diversità, dei cortocircuiti storici poco funzionali alla narrativa stabilita. Per fortuna, nel corso del ventesimo secolo la disciplina storica è cambiata: gli storici hanno accolto una visione polifonica della storia, dove sono diversi pubblici e attori a creare e interpretare attivamente il flusso storico e a determinarne la memoria. Di conseguenza, è cambiato il modo in cui una società pensa al suo passato, lo ricorda nel presente e ne elabora la fruizione. Come trasformare, dunque, i musei da raccoglitori di monoculture “immaginate” a luoghi di espressione di diverse voci?
È questo uno dei compiti che è chiamato a svolgere il public historian, ovvero colui o colei che ha acquisito le competenze della Public history: una disciplina in cui l’uso dei metodi di indagine storica esce dalle aule universitarie per incontrare un’audience più vasta, e per indagare un passato la cui memoria si presenta come il risultato della relazione tra diverse narrazioni e diversi tipi di pubblico.
Una vignetta di Galantara tratta da L’Asino
Non solo, con l’avvento del digitale il mestiere dello storico è stato chiamato a confrontarsi con fonti non tradizionali e la possibilità del singolo di interagire immediatamente con esse. Come evidenziato da Serge Noiret, la presenza del digitale ha imposto nuove pratiche di comunicazione, ha consentito la nascita di tanti archivi digitali, ha abilitato nuove fonti e moltiplicato le voci che discutono di un passato ormai diventato pubblico e sempre “presente”. Il public historian diventa così una figura importante non solo per gli archivi, i musei, le fondazioni e le biblioteche che si dotano di nuovi modi di diffondere la storia, ma anche e forse soprattutto come intermediario tra le nuove fonti e la storia stessa, come interprete di un sapere storico in profondo cambiamento.
Fare storia al tempo presente è diventata una sfida: si tratta di acquisire nuove competenze per raccontare il passato, di attivare nuove fonti, di diffondere la conoscenza con nuovi strumenti, di trovare nuovi modi per coinvolgere molte audience, includendo chi muove i primi passi nella disciplina. È da questa riflessione che nascono progetti come quello de “Le grandi trasformazioni” di Fondazione G. Feltrinelli – una piattaforma digitale, destinata alle scuole superiori, dove i grandi eventi del Novecento vengono raccontati in chiave multidisciplinare – e l’iniziativa di Russian Today “Project 1917”, dove gli scritti di diversi testimoni del 1917 russo vengono raccontati tramite tweet. Ed è in parte dalla necessità di far arrivare la storia ad un pubblico sempre più ampio e di costruire una narrativa europea polifonica che è nato il progetto della Casa della Storia Europea, un museo che – nelle parole del Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani– è stato creato per incoraggiare il dibattito, senza la pretesa di presentare una “monocultura” ma, al contrario,le diverse prospettive di un terreno comune: l’Europa. Non a caso, tra gli oggetti esposti ci sono anche le cartoline elettorali Leave/Remain del referendum sulla Brexit.
Ma la Public history non è solo la storia diffusa con altri mezzi, è anche un processo di attivazione delle memorie delle comunità, dove la possibilità di raccontarsi spinge a una rinnovata consapevolezza: la condivisione di queste storie è uno strumento con cui da una parte difendere le proprie identità locali, dall’altro renderle occasioni di conoscenza globale. In tempi di nazionalismi di ritorno, la Public history apre dunque alla possibilità di allargare la rappresentazione “ufficiale” della storia con nuovi punti di vista, diventando lo strumento con cui far dialogare il presente con il passato e sfidarne gli assoluti. Il nostro augurio è che i public historians possano aiutarci a rendere tutti i musei luoghi inclusivi, in cui confrontarsi e discutere anche di temi oggi controversi quali colonialismi, migrazioni e confini.