Diffondere la conoscenza della storia per cancellare l’idea che essa non sia altro che una successione di date o di discussioni erudite interne al mondo accademico: fare della public history significa questo. Significa assumere pienamente la dimensione civica del lavoro di storico mettendo al centro il pubblico, il lettore, il consumatore di prodotti culturali. E farlo partendo dal presupposto che per trasmettere la storia serva un professionista, una figura legittimata da un savoir faire codificato di cui sappia farsi portatore. In altri termini, qualcuno che sappia concepire traiettorie di ricerca, interrogare le fonti, ricostruire trame, interpretare il passato in modo critico, problematico, consapevole, con sicura padronanza degli strumenti e dei criteri codificati e affinati dalla tradizione storiografica. E’ l’unico modo intellettualmente e civilmente corretto per rispondere alle istanze e agli interrogativi sempre mutevoli di una società che manifesta un forte bisogno di passato e che talora lo consuma fino ad appiattirlo, fino a distorcerlo, fino a piegarlo alle necessità del discorso pubblico del presente. E questo perché ogni rappresentazione collettiva che una società offre di se stessa parte sempre da un racconto, da un’interpretazione dialettica del suo passato, anche quando si costruisce sul regime della negazione. La public history nasce da questa sollecitazione, dalla volontà di non arroccarsi in difesa di un sapere erudito e di raccogliere le sfide che bussano alle porte dell’accademia, delle biblioteche, dei musei, delle case editrici, per farle proprie. Il suo scopo allora è quello di reinvestire lo spazio pubblico, ricostruendo un nuovo equilibrio tra metodo scientifico e pubblico, tra elaborazione e diffusione del racconto storico. Una nuova dimensione del lavoro storico, allora, che sia in grado di adattarsi al regime di produzione del sapere contemporaneo, padroneggiando i nuovi canali di diffusione.
Definitasi come disciplina autonoma per la prima volta in California a metà anni Settanta, la public history ha conosciuto un successo sempre più vasto, conquistando dapprima lo spazio universitario anglosassone e poi, con tempi più lunghi, quello europeo. The Public Historian, la rivista avviata nel 1978, e il National Council on Public History, fondato l’anno successivo, hanno contribuito alla sua legittimazione, ne hanno formalizzato i principi cardine e le hanno conferito visibilità, tra l’altro attirando l’interesse dei soggetti privati. In Europa, invece, il moltiplicarsi delle iniziative in direzione di una public history è stato un fenomeno più recente, che si è accelerato nell’ultimo decennio, a testimonianza della vitalità del settore e delle sue interessanti implicazioni. Il panorama è in evoluzione. E tale evoluzione dimostra la complessità del campo, che suggerisce la necessità di una profonda riflessione e di una messa a punto delle coordinate epistemologiche e metodologiche; così come dimostra la forza delle tradizioni e delle specificità storiografiche nazionali.
È proprio per questo che, a lungo attenta al dibattito storiografico internazionale che si svolgeva al di fuori delle frontiere italiane, la comunità degli storici del nostro paese ha fondato, nell’aprile 2017, prima in Europa, l’Associazione italiana di Public history (AIPH), per promuovere l’insegnamento e la pratica della disciplina, l’organizzazione e gli esiti della ricerca, il dibattito tra i suoi cultori e la diffusione delle sue attività in Italia. La riflessione teorica sulle argomentazioni scientifiche e sulle pratiche lanciate nel mondo anglosassone, in realtà molto più precoce di quanto non si pensi, è stata finalmente seguita dalla messa in opera di cantieri istituzionali, come attesta l’incremento sensibile dei corsi universitari e dei master consacrati all’argomento, mentre si stanno intensificando gli studi dedicati ai casi e ai modi della divulgazione storica nel passato, un capitolo importante della storia politica e culturale.
Tuttavia, se gli obiettivi scientifici della disciplina sono chiari, le applicazioni e i percorsi accademici che ne contraddistinguono l’insegnamento sono plurali. Da un lato essi sono il riflesso della fisionomia e dei bisogni culturali della collettività a cui la public history vuole dare una risposta, dall’altro costituiscono la concreta realizzazione dei progetti costruiti dalle istituzioni universitarie e dalle fondazioni, ognuna con una tradizione propria, ognuna con un know-how peculiare. Le une e le altre sempre più spesso sono chiamate a collaborare, a funzionare come laboratori di una pratica storiografica, tesa a mettere in sinergia gli attori del mondo culturale e a formare gli specialisti di domani, qualunque sia il loro campo di azione.
Questo duplice elemento spiega l’attenzione verso nuovi tipi di fonti. Al riguardo è decisivo cogliere le potenzialità offerte dal web e dai social media, che implicano l’adozione di regimi di narrazione inediti e lo sviluppo di una didattica diversa rispetto a quella sviluppata nelle aule universitarie; così come è necessario insistere, oltre che sul bagaglio di conoscenze storiche e sull’acquisizione di strumenti e metodologie adeguati, anche sulle esperienze e sulle competenze, per stabilire nuovi nessi tra la sfera della formazione e il mercato del lavoro privato. La public history allora non sollecita soltanto il campo storico, creando una tensione che induce a rinnovare la maniera di raccontare il passato, ma declina diversamente anche la figura del cultore di storia, facendone un operatore culturale cosciente, capace di riavvicinare mondi, come l’accademia, la società, il pubblico e il privato per fare dell’eredità l’identità collettiva del domani.
Per concludere, la public history rappresenta in primo luogo una occasione da cogliere. Per gli studenti di storia innanzitutto, a cui indicare una nuova prospettiva occupazionale. E per gli storici, chiamati a dissodare un nuovo campo di ricerca, e, soprattutto, chiamati a ritornare protagonisti del discorso pubblico e della diffusione della conoscenza.