Cercano di farci credere che chi lotta, chi sogna, chi milita per un futuro migliore non per sé ma oltre a sé, sia una persona tormentata, confusa, strana, irrisolta. Cercano di farci credere che i sogni, le utopie, la dignità, la fede, la speranza, la passione siano delle patologie. […]
[Genova, messaggio di Camilla,
in F. Caffarena e C. Stiaccini (a cura di), Fragili, resistenti.
I messaggi di piazza Alimonda e la nascita di un luogo di indentità collettiva]
Sarà che avevo 15 anni e quella manifestazione l’ho vista sul tg3 da una camera d’albergo con un mio amico, in vacanza al mare. Sarà che mi sembra una vita fa e che la mia vita è cambiata molto, totalmente.
Genova non mi è mai appartenuta, non mi è mai entrata nella pelle, non l’ho vissuta, all’epoca non ero nemmeno troppo d’accordo. Non so bene con cosa, ma non ero d’accordo. Perché protestare, perché tutto quel casino? E poi alla televisione era diverso, eri distaccato. Come con l’11 settembre.
Il mio distacco è continuato lì. Quando il primo giorno al ritorno da scuola non parlammo delle giornate di luglio di Genova, ma dell’11 settembre. Non so se sono l’unico a sentire questo buco nella propria formazione, mi piacerebbe saperlo. Molti avranno colmato questa mancanza in qualche altra maniera, buon per loro, io ci ho messo di più. […]
Non sono bastati i mille video, le immagini, i racconti, gli articoli, i libri, i commenti e di nuovo i racconti. Ho avuto bisogno che qualcuno, prendendo per il culo il presente, scrivesse la parola “fine” sul passato. Ci ho messo undici anni a sentire la ferita di Genova come fosse mia.
Ci ho messo undici anni, ma alla fine ce l’hanno fatta a farmi provare rancore per una cosa che non ho vissuto.
[commento di “PLV” su «Giap», Genova 2001 e la sentenza 10×100. Orizzonti di gloria]1
Non eravamo tutti lì.*
Non eravamo tutti nella “macelleria messicana” della Diaz, non eravamo a Bolzaneto, non abbiamo visto il corpo senza vita di Carlo Giuliani. Io, per esempio, da poco maggiorenne, ero in viaggio di maturità. Ricordo la preoccupazione, il disagio, la sensazione che a Genova stesse succedendo qualcosa di epocale. Non avrei mai immaginato, però, che quei giorni sarebbero stati in grado di ridurre al silenzio una generazione.
Non eravamo tutti a Genova, e per alcuni anni abbiamo pensato che ci avessero detto tutto di quei giorni, perché ci siamo forse assuefatti a una narrazione visuale, documentaria e calibrata – talvolta rabbiosa, o ancora incredula – di giornalisti seri, grandi narratori o illustri testimoni in diretta di quell’evento che in Italia si è rivelato nella sua natura di rottura inimmaginabile con il mondo di prima, quello reale e quello che i movimenti immaginavano. Ma a noi non interessa solo quello che è successo a Genova, a noi interessa soprattutto quello che è successo dopo Genova.
Il problema è che molti di quelli che sono stati a Genova hanno provato, dopo, a raccontare quello a cui hanno assistito o ciò che hanno vissuto sulla propria pelle. E non ci sono riusciti. Perché se già era difficile trovare le parole, ancora più insormontabile appariva l’incredulità di chi stava ad ascoltare. Nei reduci di Genova si ritrovano le stesse espressioni verbali e la stessa reticenza che hanno segnato le storie di vita dei sopravvissuti ai grandi eventi catastrofici del Novecento. Non che chi è tornato da Genova non abbia provato a testimoniare il sangue, la furia indistinta di divise senza volto, gli attacchi laterali a cortei inermi, lo sgomento, la rabbia antica che ti dice di reagire, ti chiede di essere in grado di fare a tua volta del male a un essere umano perché appartiene alla parte avversa – perché ti è nemico, perché solo il nemico attacca per ferire, per far male, attacca vecchi, ragazzini e ragazzine, giornalisti, preti, medici, bambini.
Chi è tornato ha provato a raccontare a chi come me non c’era, a chi da casa aveva visto in tv – o forse no? – gli eventi del G8, a chi aveva letto di sfuggita sui giornali il suo contorno di black-bloc e vetrine infrante, di incappucciati e zone rosse, di violenza diffusa non iscrivibile a una parte sola. In quella che è la fase più delicata per chi ha vissuto un qualunque evento traumatico, il ritorno, si è sentito rispondere: “sì però voi, sì però Carlo Giuliani, sì però”. E, come sempre accade, si è chiuso nel proprio silenzio, ha perso le parole – se mai le aveva avute – per raccontare la sua Genova. E spesso si è allontanato dall’impegno, dall’interesse per il proprio presente, in una reazione che si ritrova con costanza nelle vicende della storia umana: dal primo conflitto mondiale al Vietnam, dai lager nazisti all’ex Jugoslavia, tornare da un evento traumatico significa fare innanzitutto i conti con la sua memoria. Una memoria che, oltre a giocare un ruolo cruciale nell’interpretazione del proprio passato, interviene significativamente nella pianificazione del proprio futuro.
Senza arrivare a chi, dopo Genova, ha deciso di non mettere al mondo dei figli – anche questo mi è stato raccontato – credo che si possa sostenere che la gran parte di chi è stato a Genova abbia in seguito abbandonato il proprio ruolo attivo nella società, anche se talvolta all’epoca dei fatti era solo embrionale.
Come embrionali sono e rimangono queste riflessioni, e forse non è un caso – è come se sentissimo la mancanza di uno spazio comune, dedicato anche e soprattutto alla rielaborazione di quello che è successo a Genova, della cocente, violenta sconfitta di tutte le istanze che scesero in piazza a Genova. In Italia i componenti più attivi di una generazione, forse di due, sono stati ridotti al silenzio, sono stati indotti a fare o a non fare delle scelte di vita anche a causa del trauma vissuto sedici anni fa. Non si sono più risollevati. E le generazioni che sono arrivate dopo, quelle nate nel cono d’ombra dell’11 settembre dello stesso anno, sempre più spesso ci chiedono perché non si parla mai di quei giorni di luglio, se è vero che è una cesura così importante, se è vero quella sconfitta riguarda anche loro. Credo che sia compito nostro – forse, soprattutto, di chi non c’era – cercare una strada per avere delle risposte, provando a interrogare questo silenzio.
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1 http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=9039.
* Ho impostato queste riflessioni anni fa con Alice Ravinale, Daniele Regoli ed Elena Bissaca, tre persone con le quali condivido da tempo un percorso di militanza che prima di Genova si sarebbe certamente definita “politica” – un’espressione che, anche in ragione delle riflessioni qui abbozzate, fatico a utilizzare.
Carlo Greppi