Avevamo dato l’ultimo esame della sessione. Prima il dovere borghese del buon figlio, del bravo studente. Poi il dovere etico-politico-retorico della partecipazione.
 
“Allora dopo l’esame partiamo subito e andiamo a Genova, ok?”
“Ok”.
“Tu lo dici ai tuoi?”
“Ma va, sei fuori? Son già tutti preoccupatissimi alla sola idea, sono settimane che si parla di infiltrati, manifestanti violenti, di quello che a momenti è morto all’ultima manifestazione in Svezia. Meglio stare zitti, al massimo se decidiamo di stare via una notte diciamo a madri e fidanzate che stiamo a dormire da te in Liguria. Ok?”
“Ok”.
 
Gli psicanalisti e i loro critici concordano spesso nel dire che le cose che meglio descrivono il nostro modo di vivere un’esperienza sono quelle che restano appese agli occhi e alla memoria in ragione sparsa. Gli ossi di seppia che il mare sputa a riva, per dirla con un’immagine corregionale.
 
La prima immagine, i primi fonogrammi che tornano, sono quelli di una coppia di giovani amici innamorati della politica, con idee non coincidenti sulla cosa pubblica ma che condividevano molte categorie di analisi e una parte importante del dna della sensibilità, che decidono che dopo gli esami per diventare bravi avvocati o magistrati – ed erano gli ultimi, oramai – si poteva partire per il G8 di Genova. Forse, si doveva partire per Genova. Di nascosto a mamma e papà, di nascosto alle ragazze, in un misto di protezione, proiezioni paraeroica, e domanda di vita pubblica. Il primo atto politico davvero adulto. La prima volta che da ventitreenni ci si sentiva, finalmente, dentro a una storia più grande ed epocale rispetto alla dimensione contingente, tutta nostra e inspiegabile al mondo, del Berlusconismo e dell’antiberlusconismo.
Il secondo fotogramma ci butta nel mezzo di una strada assolata, nel cuore di Genova, a poche centinaia di metri da Piazza Principe.
 
Siamo cresciuti a pane e De Andrè, a pane e Caproni, a pane e parole. Eravamo quelli che a venti e rotti anni, ancora, non si erano rassegnati al fatto che, dopo i venti, solo i poeti e i cretini scrivono poesie, ed era più facile contarsi tra i secondi. Nel mezzo della strada assolata camminano, in assetto antisommossa e al sincrono militare, centoventi, forse centocinquanta poliziotti. Neri, coperti di scudi e caschi. Ci guardiamo in silenzio. Rimaniamo allibiti. Abituati alle scampagnate del 25 Aprile, o a scuotere la testa irridenti quando sentiamo dire a qualcuno che Berlusconi è un fascista, o a commemorare Giorgiana Masi, inutilmente e dignitosamente, ogni anno, di colpo sentiamo che la dimensione della violenza di stato è in strada con noi. Un altro mondo è possibile? Parliamone.
 
Poi c’era che Genova la conoscevamo, la conosciamo. Credevamo allora di amarla, perché da Pavia, la nostra sede universitaria, era la meta facile di ogni pomeriggio in cui la voglia di studiare non superava quella di non farlo. In cui il diritto e l’economia tra le nebbie e le risaie non reggevano al richiamo del mare e del cielo, e di quei giorni – beati loro – tutti uguali. E siccome la conoscevamo, trovando una strada sbarrata a manifestazione iniziata, salimmo qualche caruggio ripido, schivammo qualche colonia di gatti, e di colpo sentimmo solo sirene e vedemmo salire alte colonne di fumo nero. Ci guardammo di nuovo. E sorpresi dai nostri cellulari silenziosi da ore e ore e ore.
L’ultima fotografia del giorno è senza immagini, sono poche parole gracchianti, disturbate. Tramonta, la radio riprende la linea ormai a una decina di chilometri dalla città. Tornavamo verso i nostri temporali, e scoprivamo che qualcuno a pochi metri da noi era morto. Addirittura, diceva la radio, i morti sono due, uno è spagnolo. Il cellulare riprende vita, messaggi e messaggi in segreteria. “Non sarai mica a Genova, sono ore che ti cerchiamo, richiama”.
 
Poi arrivarono i giorni dopo. I giorni della Diaz e di Bolzaneto, i giorni del martiriologio di Carlo Giuliani e i giorni della sua condanna perché “se l’era cercata”. I giorni in cui si scoprì che Fini era in caserma, e quelli in cui Scajola si difese a brutto muso. I giorni in cui D’Alema disse cose di sinistra, e Violante invece disse cose di destra. Poi luglio volò via e fu subito settembre, al giorno 11, per la precisione. Il giorno dopo, il 12, partivo per l’Erasmus e mettere le alpi tra me e Genova fu un destino di distanza naturale: una benedizione senza merito, un ritorno all’impegno piccolo borghese da cui siamo partiti.
Eppure. Eppure noi a Genova ci eravamo andati interrogandoci e leggendo, sfidando il mainstream della fine della storia e quello della Terza Via, nella formula estrema e un po’ fideistica dei post comunisti italiani che si trovarono liberali senza essere stati neppure socialdemocratici. E ricordandoci di tutto questo, poi, quando a non dare letture ireniche della globalizzazione, in Italia, qualche anno dopo fu Giulio Tremonti, e non i “nostri” compagni. Chiedendoci se davvero il mondo aveva trovato la Stabilità Definitiva o se, come avevamo imparato annusando Polanyi, il capitalismo era per costituzione instabile.
A Genova, c’eravamo arrivati pensando alla politica, volendo fare politica. E ci trovavamo ributtati, invece, nella solita prigionia italiana che tutto riporta a drammatica questione privata. Riappropriarci di quei giorni, delle loro verità e delle nostre bugie, non ci riporterà ai vent’anni. Ci consegnerà ai quaranta con più coscienza, che è l’ingrediente fondamentale per ogni altro mondo: possibile.

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