Per capire il significato politico dell’astensione è utile partire dal suo opposto, dalla partecipazione. Chi partecipa prende parte, sceglie un’opzione rispetto alle altre, decide di indossare una precisa casacca e di rendersi riconoscibile. Per questa ragione, partecipare vuol dire anche sentirsi parte, e cioè condividere assieme agli altri un’identità, un’appartenenza, una certa visione del mondo.
Al contrario, chi non partecipa non parteggia, sceglie più o meno consapevolmente di non scegliere; lascia che siano gli altri a decidere per conto e al posto suo. L’astensione, ossia la decisione di non recarsi ai seggi, presuppone in realtà una in-decisione su quale sia la parte giusta o se valga la pena sceglierne una. Chi si astiene lo fa perché intende chiamarsi fuori da un sistema politico che non lo rappresenta, non lo coinvolge o non lo soddisfa.
Fissati questi paletti concettuali, possiamo valutare con più attenzione i risultati delle recenti elezioni amministrative, dove quasi un elettore su due – tra primo turno e ballottaggio – ha deciso di restare a casa e di lasciare agli altri, i partecipanti-votanti, il compito di scegliere. Ai partiti e ai loro dirigenti interessa soltanto il numero dei voti presi o persi o quelli dei comuni conquistati o strappati all’avversario. La voce degli assenti diventa impercettibile, viaggia su una lunghezza d’onda del tutto diversa rispetto a quella dei partiti. Di conseguenza, quello degli astensionisti è un urlo silenzioso: un atto di protesta o di pigrizia che i leader di partito preferiscono non sentire perché richiederebbe una riflessione auto-critica sul loro operato, di ieri e di oggi.
Però, c’è un aspetto che rende complicata la possibilità di decifrare con precisione gli umori degli astensionisti. L’area del non-voto, in crescita in Italia e in Europa, non ha leader, non ha rappresentanza, non ha portavoce. È soltanto un agglomerato di atteggiamenti e orientamenti diversi, spesso anche contrapposti. Al suo interno troviamo, per esempio, una componente anti-politica, che possiamo anche descrivere come astensionismo passivo e che si rifugia nell’astensione come una forma di apatia verso la politica o di disincanto per le modalità di funzionamento della democrazia rappresentativa. Ma ne esiste anche una seconda componente, più anti-partitica, che utilizza tutti gli strumenti a disposizione – come quello dell’astensionismo attivo – per esprimere una volontà di protesta nei confronti dei dirigenti di partito e dell’attuale rappresentanza partitica. Queste due anime del non-voto usano lo stesso strumento per veicolare messaggi diversi, ma esprimono entrambi, nella loro interazione, un senso di crescente malessere verso il funzionamento e il rendimento di quella “democrazia dei partiti” ben descritta nella sua evoluzione storica da Bernard Manin.
In Italia c’è chi suggerisce di non dare troppo peso all’aumento dell’astensione. Si tratterebbe, secondo loro (sia politici che commentatori), di una “normalizzazione” dell’Italia agli standard partecipativi europei. Stiamo diventando, cioè, una nazione dove la partecipazione politica tradizionale conta sempre meno, allineandoci alle basse soglie dell’affluenza registrate negli altri paesi d’Europa. Però, quello che non si dice è che il crollo della partecipazione in Italia, soprattutto a livello locale, non ha paragoni per rapidità e profondità con le altre nazioni. In media, negli ultimi vent’anni abbiamo lasciato per strada un punto percentuale di partecipazione all’anno. Una perdita invisibile, silenziosa nel breve periodo, ma che col passare del tempo rischia di corrodere le fondamenta di qualsiasi regime democratico.
Se questo trend, che sembra più strutturale che contingente, dovesse persistere nel corso del tempo, assisteremmo alla formazione di una democrazia senza popolo, che si esaurisce in un esercizio del kratos del tutto slegato dalle opinioni e dalle preferenze del demos. Fortunatamente, la storia non ha mai un finale predeterminato e segue spesso percorsi imprevedibili. Ma se si vuole realmente invertire la rotta dell’astensione, c’è un aspetto sul quale bisogna intervenire rapidamente. È necessario che la politica torni a dialogare con la cultura per poter offrire ai cittadini delle idealità alle quali appassionarsi e delle identità nelle quali riconoscersi. Del resto, che senso ha partecipare se non esistono più parti alternative tra cui scegliere?