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L’ossessione contemporanea per la “fine del lavoro” ha preso negli ultimi anni una piega inquietante: si è trasformata nella profezia di una “grande sostituzione” degli esseri umani per mano dei processi automatici. Piega inquietante, ma non inattesa. La storia degli ultimi secoli pullula di simili predizioni. I classici dell’economia erano scossi da identici timori, anche se suscitati da tecnologie differenti. Già nel 1801, Thomas Mortimer s’inquietava dell’arrivo dei mulini industriali che avrebbero a suo dire “quasi del tutto escluso il lavoro del genere umano”. Nel suo trattato Filosofia delle manifatture del 1835, Andrew Ure affermava che lo scopo delle macchine è di “soppiantare completamente il lavoro degli uomini”.

Queste paure riappaiono ciclicamente, di fronte a ogni grande ondata d’innovazione. Niente di sorprendente allora che l’“uberizzazione” e l’automazione odierne le ripropongano. Ma bisogna riconoscere che le visioni future fatte di auto senza conducenti e di fabbriche senza operai sono delle maniere, esagerate perché chimeriche, di esprimere tensioni più sottili che attraversano le nostre economie. E di rimettere in discussione i nostri modi tradizionali di pensare il lavoro. Spesso però queste analisi ignorano le specificità delle attività umane all’epoca del digital labor. Quest’ultimo non annuncia la scomparsa del lavoro, ma la sua inscrizione in dinamiche globali d’informatizzazione (datafication) e di cottimizzazione (taskification) che riguardano in principio tutte le professioni—non solamente quelle dei settori tecnologici. Dal dirigente aziendale che si serve dei big data per prendere decisioni strategiche, al postino il cui lavoro consiste anche nell’uso di terminali mobili che accumulano informazioni sui recapiti postali, orari, dati GPS, ecc. l’uso di strumenti digitali diventa un fattore distintivo del lavoro odierno. Ma questi strumenti contribuiscono alla frammentazione crescente delle mansioni e delle competenze. Tendenzialmente, le nuove professionalità indotte del digitale assomigliano a micro-funzioni sempre più semplici e ripetitive (un clic, un invio, una modifica di un progetto più vasto il cui controllo sfugge al lavoratore). I nuovi inquadramenti contrattuali si sottraggono sempre più ai rapporti salariali tradizionali, mentre si conferma una forte presenza d’impieghi precari, non standard e “on demand”.

Man mano che il lavoro si trasforma in digital labor, si espone all’azione di forze meno riconoscibili che l’automatizzazione. Da un lato, la generalizzazione del paradigma delle piattaforme che si afferma oramai anche presso aziende “tradizionali” le quali assumono progressivamente la forma di ecosistemi in cui clienti, consumatori finali, folle anonime diventano lavoratori impliciti. Dall’altro, l’emergenza di grandi mercati digitali del “micro-lavoro”, parcellizzato e assemblabile, controllati da giganti dell’economia digitale (come Microsoft, Amazon, Google) che se ne servono per nutrire dei sistemi di machine learning su larga scala.

Questa riconfigurazione progressiva della forza lavoro genera nuove inquietudini, e alimenta le profezie distopiche di una “grande sostituzione” dei lavoratori con dei processi automatici. Anche se l’introduzione di robot e intelligenze artificiali è presentata come un’evoluzione socio-economica inevitabile, la centralità del gesto produttivo umano è irriducibile. Malgrado la sua invisibilizzazione, atomizzazione e dematerializzazione, è proprio il contributo di folle di esseri umani che permette alle grandi piattaforme digitali di realizzare forme intensive di acquisizione di valore. I flussi di dati, le masse di contenuti e i pattern di comportamento di cui le piattaforme si impossessano, permettono il funzionamento di intelligenze artificiali, “assistenti virtuali” e robots industriali.

Conviene allora parlare non di sostituzione, ma di simbiosi tra gesto umano e operazione automatica. L’annuncio della scomparsa del 47% dei posti di posti di lavoro (Frey e Osborne, 2013) è uno scenario improbabile. Storicamente, il mercato del lavoro ha tendenza ad assorbire gli choc tecnologici (Autor, 2015). Quello che davvero sembra in pericolo non è il lavoro in sé, ma il suo inquadramento salariale. Si moltiplicano delle forme atipiche di lavoro precario, sottopagato, micro-remunerato, o gratuito. Contemporaneamente, si assiste alla dissoluzione delle categorie ereditate della cultura salariale del secolo scorso: l’impiego, la protezione sociale, il legame di subordinazione.

Per aiutare il riassorbimento di questo squilibrio economico e culturale, è necessaria anche una regolazione pubblica che si appoggi sul riconoscimento del cambiamento radicale subìto delle attività produttive umane. Il digital labor si appoggia su un complesso legame tra il lavoro invisibile dei consumatori connessi, il micro-lavoro degli operai del clic, il lavoro in cerca di riconoscimento di freelance ben poco “free”, il lavoro di amatori-professionisti costretti in un rapporto di dipendenza economica dalle piattaforme digitali.

 

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