Nel tempo le lettere di Don Lorenzo Milani alla madre (qui sotto proponiamo l’estratto consistente che il supplemento de L’Espresso pubblica nel marzo 1973), sono scomparse. Sono prevalsi gli scritti militanti dell’ultima fase (da Lettera a una professoressa a Diseredati e oppressori, oggi più noto con il titolo L’obbedienza non è più una virtù).
In queste lettere per molti aspetti c’è la preistoria. Tuttavia in quella preistoria c’è molto, forse c’è già tutto.
È l’intransigenza, il gusto dello scandalo (è la nota su Simone Weil nella lettera datata 14 luglio 1952), a esprimere “il sale” di queste lettere.
Forse a una prima lettura può sembrare che non ci sia l’icona del ribelle in queste lettere.
Errore. Forse Don Milani non è mai stato radicalmente ribelle come in queste lettere.
In queste lettere c’è la quotidianità di uno che andava “in direzione ostinata e contraria” pur stando nelle regole.
Lorenzo Milani, infatti, era prima di tutto un prete e neppure un prete ribelle: amava celebrare messa, confessare e confessarsi, come si deduce anche da queste lettere.
Ma lo scandalo stava, e sta, proprio qui. Il fatto che quelle che molti considerano regole e dunque legittimità dell’esistente, qui diventano premessa e legittimità a “pretendere” un diverso presente: radicalità delle scelte prime, non accontentandosi di andare “controcorrente”.
In un’Italia che lasciava la periferia e “correva in città”, Milani fa il tragitto opposto e trasforma la periferia e i suoi malesseri nel luogo privilegiato per leggere le conseguenze dello sviluppo non governato.
La periferia così diventa un luogo che anche altri (per esempio Danilo Montaldi) indicheranno come significativo e sceglieranno per mettere al primo posto i nodi, i vincoli, le contraddizioni dello sviluppo. In una parola per mettere al centro e far vedere quello che molti non vogliono vedere: le profonde contraddizioni della quotidianità, la miseria, ma anche la disperazione, la marginalità, la rabbia, la solitudine e, insieme, le vie della possibilità e del riscatto.
Clicca qui e scarica il PDF dell’articolo uscito su L’Espresso nel 1973 tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli