Ricercatrice Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Dal 5 al 9 giugno scorsi a Ravenna si sono dati appuntamento più di 500 professionisti della storia provenienti da tutto il mondo. Nei più di 90 panel programmati in 5 giorni di attività, si sono avvicendati non solo studiosi ed accademici, ma anche curatori di musei, responsabili di siti archeologici, archivisti, operatori a vario titolo coinvolti nella gestione e valorizzazione dei beni culturali di interesse storico; e professionisti della divulgazione e della comunicazione che producono e promuovono cultura storica.

L’obiettivo: confrontare esperienze, metodologie e prospettive della Public History, disciplina che ambisce a fissare uno statuto scientifico di inquadramento per le pratiche culturali che, in varie forme, immettono sapere storico nello spazio pubblico: dalle esposizioni ai romanzi, dalle riviste illustrate ai documentari, dalle rievocazioni in costume ai videogiochi.

Tutte queste forme di “storia pubblica” oggi sono investite da una doppia rivoluzione che ne sta cambiando profondamente la fisionomia. Da un lato la globalizzazione ha mescolato le carte, aprendo a nuovi pubblici che pongono al passato nuove domande e mettendo in crisi il tradizionale racconto su base nazionale (o internazionale e comparativa); dall’altro l’avvento dell’interazione e della condivisione digitale ha creato nuovi linguaggi, nuovi canali e nuove forme di disseminazione della storia.

Incalzato da questi processi evolutivi, anche il mestiere di storico – come tante altre professioni “tradizionali” – si è trovato di fronte alla necessità di innovare radicalmente metodologie di ricerca e linguaggi, superando le rigidità di una figura forgiata a metro e a misura dell’accademia, che spesso rinuncia a priori a rivolgersi a un pubblico più ampio di quello degli specialisti. D’altro canto, già da tempo la strada della ricerca e della didattica non è più in grado di assorbire la messe di laureati e specializzati in discipline storiche, che sono dunque posti nella condizione di spendere le proprie competenze al servizio della disseminazione del sapere storico.

A Ravenna, nell’ambito di un panel intitolato Does History Sell? moderato da Catherine Brice – docente presso Université Paris-Est Creteil e promotrice del primo master in Public History in Francia – e dedicato precisamente alle opportunità di lavoro che si muovono attorno alla storia, si è parlato molto chiaramente di mentalità imprenditoriale, attenzione al nuovo, tensione verso il futuro quali elementi necessari per chi desidera fare della Public History la propria professione.

Sono osservazioni che danno conto dell’avvicendamento generazionale che ha visto invecchiare la categoria degli storici “strutturati” (nelle università, ma non solo: anche in archivi, biblioteche, musei e altre istituzioni più coinvolte nella dimensione pubblica della storia), mentre i primi che hanno dovuto trovare percorsi alternativi – e che oggi hanno intorno ai 40 anni – si sono trovati spesso a  “inventarsi” una professione che li ha portati a maturare esperienze in vari ambiti della divulgazione, della comunicazione, della progettazione culturale. E a sfruttare le molte occasioni create dal digital turn e dall’espansione delle digital humanities.

Se questa esplosione di entusiasmo per la Public History ha un merito, esso è rappresentato dalla capacità di questa disciplina di raccordare e inquadrare tutte queste esperienze di autonoma costruzione professionale, circoscrivendo e problematizzando linguaggi, riflessioni teoriche, strumenti di lavoro. E favorendo lo sviluppo di percorsi formativi codificati, grazie ai quali le nuove generazioni di laureati non hanno più bisogno di “inventarsi” autonomamente strategie e competenze, ma possono fare tesoro dell’esperienza di chi è già inserito nei processi di innovazione e di sperimentazione dei nuovi linguaggi della storia.

Se è vero, come ha sostenuto Serge Noiret (European University Institute) – da tempo attivo sul tema e tra i promotori dell’iniziativa di Ravenna – nella sua prolusione inaugurale, che il public historian è lo storico del futuro, la strada da perseguire è quella di un costante aggiornamento professionale, non soltanto per recepire i risultati più nuovi della ricerca scientifica, ma soprattutto per tenere il ritmo dell’evoluzione delle forme di narrazione e di disseminazione capaci di incidere davvero sulla conoscenza diffusa della storia.

 

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