Nell’intervento alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza dello scorso febbraio, lo scrittore israeliano David Grossman ha supposto che l’elezione di Donald Trump abbia fatto assurgere, portandola al governo, una visione del mondo per cui non esiste una verità assoluta, bensì una concomitanza di fatti e ‘fatti alternativi’, attingendo, nel coniare questa espressione, a reminiscenze orwelliane.
Analogamente, si è ampiamente dibattuto delle notizie vere e delle cosiddette fake news, inventate, a detta dell’attuale Presidente americano, da una stampa ostile che lo critica sulla base di millanterie ed illazioni prive di evidenza. E poi, ci sono state dichiarazioni e promesse che il personaggio in questione si è sentito, in questi primi quattro mesi di mandato presidenziale, di ritrattare e rinnegare, se necessario. La recente attualità, però dimostra che Trump sa anche mostrare coerenza e fermezza nel realizzare quanto anticipato ai suoi elettori: ne è una dimostrazione la dichiarazione del ritiro dall’accordo di Parigi sul Clima che 195 Paesi, tra cui appunto gli Stati Uniti, hanno firmato lo scorso dicembre 2015 su cui Trump ha costruito parte della sua campagna elettorale. Ecco, quindi, che il temuto abbandono da parte del secondo produttore mondiale di gas a effetto serra degli impegni assunti in sede di firma di quello che è ampiamente riconosciuto come una pietra miliare nella lotta al cambiamento climatico diventa ufficiale. Con questo, si delinea sempre più chiaramente la promessa, non ancora compiuta, della modifica di alcuni equilibri geopolitici che marcano il divario tra un Occidente che è sempre più estremo e un Oriente, nello specifico la Cina, che, invece, prelude a un abbandono del suo isolazionismo gettando ponti verso l’Europa, di cui diventa prezioso alleato per la riduzione delle emissioni di gas clima-alteranti nel futuro prossimo.
È ancora una volta lo slogan di riportare l’America alla sua originaria grandezza quello su cui Trump è tornato più volte nel corso dell’annuncio del ritiro dall’Accordo di Parigi. Una grandezza che appare, nella visione propugnata dal neopresidente, fortemente autoalimentata e centripeta, incentrata su uno sviluppo interno che chiude, facendo propria una visione anacronistica, alla cooperazione internazionale in vista di un bene collettivo di altissimo valore, qual è la salvaguardia del nostro Pianeta. La decisione di Trump assume senz’altro una connotazione di ‘ritorno’ per gli Stati Uniti, ma non a un antico, supposto splendore, quanto a un’epoca, ormai ampiamente superata, in cui l’Europa e l’America si configuravano come due poli antitetici sulle sponde dell’Atlantico. Un’epoca la cui fine fu decretata proprio dal conseguimento di un ideale di bene comune, quello della libertà dal nazifascismo, che vide concretizzarsi nel 6 giugno 1944 il momento più alto di unione tra l’Europa e l’America, in cui quest’ultima si rese responsabile di un sacrificio massimo nella battaglia di Normandia di cui ricorre a breve l’anniversario.
Un “ritorno a casa” che acquista anche uno strano sapore, proprio per la risposta che, per esempio, ha dato il neopresidente francese Emmanuel Macron invitando i ricercatori americani in Europa e in Francia per continuare quelle ricerche verso la “green economy” che il Presidente Trump considera inutili, dannose e “antiamericane”.
Non sappiamo se avverrà per davvero quel flusso dagli Stati Uniti verso l’Europa. Anche questo è un segnale (se non reale, certo nell’immaginario collettivo) di inversione della storia di un secolo: quel flusso di intellettuali in fuga dall’Europa e che negli Stati Uniti andavano a cercare quelle possibilità che nel “vecchio continente” non erano possibili e che hanno anche contribuito alla grandezza dell’America, è un altro segnale che il Novecento è finito e che forse comincia un’altra epoca. Meglio sarebbe se non sotto il segno dell’antiamericanismo o di un orgoglio nazionalista dell’Europa (le parole di Macron non lo dicono, ma lo potrebbero autorizzare e il vecchio antiamericanismo di noi europei è sempre in agguato).
È un fatto, tuttavia, che la libertà di allora quale ideale di progresso verso la sconfitta e la negazione del totalitarismo si pone in netto contrasto con la sovranità nazionale cui oggi si richiama Trump, di cui emerge, sempre più chiaramente, un territorialismo senza visione prospettica in cui, come ricorda Grossman, a una concezione democratica del mondo se ne sostituisce una estemporanea animata da leggi autoreferenziali e pulsioni individualistiche che rischiano di farci perdere la sfida più urgente con cui siamo, oggi, chiamati a misurarci: il cambiamento climatico.