Ci sono, di questi tempi, alcune parole magiche. Parole che, come d’incanto, fregiano di insospettata autorevolezza colui che le pronuncia. Parole che, snocciolate incidentalmente, catturano la nostra attenzione e ci convincono dell’attendibilità del nostro interlocutore. Tra le parole magiche di questi tempi c’è il termine “startup”.
Le formule magiche, però, funzionano se il momento è opportuno e se colui che le pronuncia ne conosce il significato. Proferite a sproposito, finiscono solo per apparirci sfuocate, scialbe e sbiadite.
Proviamo allora a ricostruire la storia del termine “startup”. In inglese, il verbo “startup” significa “avviare”, “attivare” e nell’ambito della cultura manageriale con il vocabolo “startup” si intende la fase di avvio di un’iniziativa d’impresa: l’insieme, cioè, di quelle operazioni necessarie per mettere in moto un business. Nel gergo imprenditoriale anglosassone, e in particolare in quello americano, il termine – evocativo di uno stile di vita che celebra l’innovazione, l’intraprendenza, la predisposizione al rischio – esiste da sempre. Nel suo libro The Startup owners manual Steve Blank, un’autorità in materia di startup, ne ha fornito una prima definizione, utile a metterne in luce le specificità: le startup, infatti, non sono versioni in piccolo di grandi aziende. Una startup è un’organizzazione temporanea in cerca di un modello di business ripetibile, scalabile e profittevole. L’obiettivo di una startup, infatti, è quello di smettere di essere tale, così da potersi trasformare, un giorno, in una grande azienda. È per questo che, nella fase startup, ciò che conta è il processo di scoperta e di apprendimento: visto il numero d’incognite, il successo degli startupper risiede nella capacità di reagire con prontezza e con metodo agli imprevisti e ai primi insuccessi. Lo spunto di Blank ci dà modo di fare un breve cenno alla situazione italiana. In Italia, l’ecosistema startup, pur essendo ancora giovane, sta progressivamente maturando: acceleratori, investitori, media, governo e altri attori stanno contribuendo all’innovazione made in Italy. Una via italiana all’innovazione che già era stata tentata a metà degli anni ’80, per esempio con la legge 44 per il Mezzogiorno, atta a finanziare l’imprenditoria giovanile, o con la nascita dei primi incubatori d’impresa in vari distretti industriali italiani.
La svolta semantica che avrebbe portato all’irruzione del termine “startup”, però, era ancora di là da venire. Una ricerca condotta dalla società di tecnologia semantica Expert System rivela che sui giornali italiani, prima del 2011, le apparizioni del termine “startup”, erano molto poche.
Come riporta un articolo del Sole24ore, a parte un picco attorno al 2000, anno di grandi speranze per la «new economy» digitale, tra il 1992 e il 1999 e tra il 2001 e il 2010 questa parola si è letta di rado sui quotidiani nazionali.
Ora il trend sembra cambiato e il termine è entrato a far parte delle parole magiche d’uso quotidiano. Solo alcuni dati: alla fine di luglio, le startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese (consultabile qui) erano 2.343. Guardando alla distribuzione geografica, spiccano la Lombardia, con 505 startup, e l’Emilia Romagna, con 263.
In Italia, come spiega un articolo de Lavoce.info, la crescita delle startup passa da un collo di bottiglia: la capacità di generare idee imprenditoriali è in aumento, ciò che fa difetto sono le misure e gli interventi che facilitino l’ingresso di competenze e capitali nelle startup innovative.
E se l’obiettivo di una startup, come spiega Blank, è quello di smettere di essere tale, forse è proprio a questi colli di bottiglia che a livello di policy e di sistema si dovrebbe guardare.
Caterina Croce
Project Manager di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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