Nella letteratura politica e sociale di sinistra del Ventesimo secolo il taylorismo è stato comunemente rappresentato come uno strumento di sfruttamento “scientifico” del lavoro operaio, organizzato secondo criteri ripetitivi, parcellari e standardizzati, dove la mancanza di discrezionalità e di autonomia è vista come una condizione necessaria per ottenere un rendimento produttivo più intenso e uniforme. Questa lettura del taylorismo tuttavia non tiene conto della fase storica dell’economia industriale americana di cui Taylor stesso si trovò ad essere testimone, segnata da un profondo contrasto fra un livello di progresso tecnico che consentiva ormai una produzione di massa e l’arretratezza dell’organizzazione produttiva delle fabbriche, rimasta ancorata a criteri rozzi e obsoleti con un miscuglio di approssimazione, empiria e arbitrio. Taylor era un conoscitore profondo del mondo dell’officina, che aveva osservato, scomposto e analizzato in ogni sua piega, fin dai dai tempi del tirocinio giovanile fino all’attività direttiva esercitata presso la Midvale Steel Company e la Bethlehem Steel Company. Negli anni dedicati allo studio del funzionamento degli impianti industriali, aveva riscontrato un’estrema varietà dei metodi di lavoro e un’assoluta eterogeneità dei procedimenti organizzativi.
Con i suoi studi sullo scientific management, Taylor intendeva quindi offrire una risposta ai problemi di crescita che in quel momento le imprese industriali americane si trovavano di fronte e che potevano essere compendiate nella resistenza sindacale al cambiamento e, soprattutto, nella necessità di imprimere una disciplina produttiva alla massa eterogenea dei lavoratori immigrati. Per quanto riguarda il primo punto, la risposta di Taylor era da cercare nell’aumento di produttività generato dal suo sistema, che sarebbe stato così imponente da estirpare per sempre ogni contrasto tra gli interessi dell’azienda e quelli dei lavoratori.
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tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Vale la pena ricordare a tale proposito proprio l’incipit del famoso volume The principles of scientific management, pubblicato nel 1911: “l’obiettivo principale dell’organizzazione dell’impresa deve essere quello di assicurare il massimo benessere all’imprenditore e insieme il massimo benessere a ciascun dipendente”. Nel prosieguo del testo viene tratteggiato a scopo didattico il profilo dell’ “operaio Schmidt”, un “piccolo olandese della Pennsylvania”, assai “poco pronto di mente”, ma che pure, a patto di fargli eseguire delle mansioni analiticamente scomposte e razionalizzate, poteva diventare un operaio di prim’ordine.
Eppure se si supera l’impronta chiaramente conservatrice dell’antropologia economica di Taylor, popolata da operai naturalmente portati all’indolenza, che lasciati a sé stessi tenderanno sempre a prendersela comoda e a rallentare la produzione, non si può non riconoscere la portata innovativa del suo pensiero, che ad esempio non risparmiava critiche alla classe imprenditoriale del suo tempo, accusata di metodi inadatti e arbitrari nel comando della manodopera, come la fissazione di quote di produzione e livelli salariali in modo arbitrario. Tipica espressione di questa pratica era il lavoro a cottimo largamente usato a quell’epoca e criticato aspramente da Taylor perché causa della diffusione nelle officine di un disastroso clima di sfiducia e conflitto.
Non bisogna dimenticare del resto che la proposta di organizzazione scientifica di Taylor – riassumibile nei famosi quattro principii fondamentali: individuazione dei migliori metodi di lavoro, selezione e addestramento della manodopera, sviluppo dei rapporti di stima e di collaborazione tra direzione e manodopera, stretta divisione dei compiti fra la manodopera e i diversi livelli gerarchici del management – aveva come finalità la gestione ottimale delle risorse umane e materiali dell’impresa. Attraverso il metodo scientifico infatti la direzione poteva conoscere non solo le possibilità di aumento della produttività, ma anche i limiti non superabili dello sforzo che si poteva richiedere alla manodopera, sforzo che andava inoltre ricompensato con adeguati aumenti salariali.