Université de Lausanne

Oggi non si parla più di lavoro, ma di lavori. Le trasformazioni del mondo del lavoro, infatti, a partire da quelle tecnologiche, configurano un’esperienza di lavoro sempre più fluida e instabile. Da una parte, l’automazione e la cosiddetta industria 4.0 portano a una contrazione dei posti di lavoro, soprattutto quelli meno qualificati. Dall’altra, emergono nuovi e “altri” lavori, e di conseguenza emerge la necessità di ripensare forme e modalità per organizzarli. Quali le conseguenze sul concetto stesso di cittadinanza?

 

 

 

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (Articolo 1, Costituzione italiana)

 

 

L’articolo 1 della Costituzione italiana stabilisce un nesso forte tra lavoro e democrazia: il lavoro viene identificato come fondamento stesso della Repubblica. Il lavoro non viene più visto come una merce, ma come uno strumento di emancipazione, un mezzo attraverso il quale viene conferita dignità alle persone. Non solo: se cittadinanza significa appartenenza a una determinata comunità, allora è anche attraverso il lavoro che si diventa parte della comunità, che vi si partecipa, che si acquisisce l’identità di cittadini. Oggi questo nesso sembra essersi rotto.

 

 

 

 

Naturalmente, il contesto storico, sociale e politico che caratterizzava gli anni della Costituente è molto diverso da quello attuale: allora partiti e sindacati erano istituzioni, corpi intermedi, forti e legittimati, e il lavoro più stabile. Oggi, al contrario, lavoro e società sono sempre più frammentati, e il mondo politico fatica a raccogliere la sfida di rappresentarli.

 

 

 

 

T. H. Marshall, nella sua fondamentale analisi (Cittadinanza e classe sociale) distingue tre tipi di diritti, che danno forma a tre tipi di cittadinanze: i diritti civili, politici e sociali.

“(…) mi propongo di dividere la cittadinanza in tre parti (…). Chiamerò queste tre parti o elementi il civile, il politico e il sociale (…). L’elemento civile è composto dai diritti necessari alla libertà individuale: libertà personali, di parola, di pensiero e di fede, il diritto di possedere cose in proprietà e di stipulare contratti validi, e il diritto a ottenere giustizia (…). Per elemento politico intendo il diritto a partecipare all’esercizio del potere politico, come membro di un organo investito di autorità politica o come elettore dei componenti di un tale organo (…). Per elemento sociale intendo tutta la gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza economici fino al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società.

L’acquisizione progressiva di questi tre diritti ha caratterizzato le democrazie contemporanee, fino alla creazione dei moderni welfare state. Le democrazie contemporanee si caratterizzano infatti per la difesa di tutte e tre le classi di diritti, fino appunto a quelli sociali.

Per Marshall la cittadinanza è “lo status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità”. Lo status di cittadino, l’essere titolare di alcuni diritti, è visto come antidoto alla disuguaglianza, conferendo uguali opportunità a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro classe sociale.

 

 

 

 

È appunto nei cosiddetti “trent’anni gloriosi” – l’epoca del fordismo, dal dopoguerra all’inizio degli anni settanta – che il nesso tra cittadinanza e lavoro, stabilito dalla Costituzione, si è stretto: il lavoro diventa allora la precondizione per accedere ai diritti sociali, al welfare state che in quegli anni si espande e si rafforza, e quindi alla “cittadinanza sociale”. Spinto dalla crescita che caratterizzava i paesi industriali, l’impiego salariato, a tempo pieno e indeterminato, diventa il riferimento attorno a cui da un lato si definisce la posizione occupazionale ed economico-sociale degli individui, dall’altro lato si forgia la loro identità sociale.

Oggi, al contrario, nell’epoca post-fordista, assistiamo a importanti trasformazioni del mondo del lavoro: la precarizzazione, la flessibilità, la crescita della disoccupazione. Queste trasformazioni aprono a nuove disuguaglianze, minando il senso stesso della cittadinanza. Se cittadinanza significa appartenere a una comunità, vi si appartiene anche in quanto titolari di diritti. Oggi, di fronte a sistemi di welfare tradizionali pressoché invariati (e quindi ancorati a una stabilità del lavoro che va scomparendo), sempre più persone vengono escluse da una serie di diritti, come appunto quelli sociali. Infatti, se il lavoro è la condizione per accedere pienamente ai diritti e quindi alla cittadinanza sociale, cosa succede a chi ne resta escluso, perché non ha lavoro o perché ha un lavoro precario?

Ci troviamo di fronte a una serie di nuovi e inediti conflitti e disuguaglianze all’interno del mondo del lavoro: quelli tra inclusi ed esclusi, tra chi sta dentro (le tutele, il mercato, i diritti) e chi sta fuori. La crisi economica ha ulteriormente complicato il quadro: a una precarizzazione del lavoro segue quindi una sorta di “precarizzazione della cittadinanza”, che può avere delle conseguenze anche sugli atteggiamenti civici.

 

 

 

 

Ma oltre e parallelamente alla crisi della cittadinanza sociale assistiamo anche a una crisi della cittadinanza politica. Si tratta di una vera e propria crisi della rappresentanza, che coinvolge sia i partiti che le organizzazioni sindacali, due corpi intermedi cardine delle democrazie novecentesche, incaricati di tutelare i diritti dei cittadini, che sono a loro volta sempre più frammentati e delegittimati.

Se da una parte, infatti, le organizzazioni dei lavoratori faticano a rappresentare soggetti che sfuggono ai tradizionali schemi di intervento sindacale, dall’altra sono gli stessi lavoratori che non si rivolgono a questi soggetti per rivendicare i propri diritti. Parallelamente, i partiti e in generale il mondo della politica sono visti come inefficaci, percepiti dai cittadini come incapaci di reagire di fronte a dinamiche sovranazionali che toccano anche questioni occupazionali. Le due crisi, quella della dimensione politica e quella della dimensione sociale della cittadinanza, sono insomma tra loro in larga parte connesse.

Quali soluzioni è possibile mettere in campo per ricucire il nesso? Come includere nella cittadinanza quanti, perché non hanno lavoro o perché non hanno un lavoro stabile, ne restano esclusi? Il “reddito di cittadinanza” può essere considerata una soluzione? Se il reddito di base diventasse diritto di tutti, forse contribuirebbe a includere nella cittadinanza (anche quella politica) chi se ne sente escluso. In un contesto in cui l’automazione e le trasformazioni tecnologiche spingono verso un cambiamento stesso del concetto di lavoro, una traiettoria da approfondire, considerata da alcuni un modo per garantire pari opportunità e dignità a tutti i cittadini, potrebbe essere quello di passare dal diritto al lavoro al diritto al reddito.

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