Negli anni Novanta del secolo scorso la maggior parte degli Stati latinoamericani ha riformato i rispettivi ordinamenti giuridici, introducendo disposizioni che hanno sia proclamato la composizione plurietnica e multiculturale delle proprie popolazioni sia riconosciuto i diritti indigeni, cioè diritti specifici per le popolazioni originarie presenti nei rispettivi territori, oltre ai diritti civili, politici e sociali già loro riconosciuti.

Quando si parla di popoli indigeni ci si riferisce a circa 400 milioni di persone che attualmente abitano il nostro pianeta, il 10% delle quali vive in America Latina (circa l’8% della popolazione totale) secondo differenti situazioni in termini demografici, territoriali, sociali e politici, che vanno dalle popolazioni in isolamento volontario sino a comunità inserite in contesti urbani, e che rivelano una continuità storica con le società precedenti, un passato di colonizzazione, una specificità culturale rispetto al resto della popolazione; non appartengono ai settori dominanti della società e i loro componenti si autoidentificano come indigeni e sono accettati come tali dal gruppo.

All’appuntamento col riconoscimento dei propri diritti i popoli originari sono giunti dopo discriminazioni, assimilazioni forzate, eliminazioni fisiche e sottrazione delle terre che dall’epoca della Conquista e della colonizzazione si snodarono per tutta l’America Latina dell’Ottocento, quando le nuove élites politiche creole e meticce promossero nazioni indipendenti bianche e omogenee. Seguirono nel Novecento le luci e le ombre dell’indigenismo e, poi, la emergencia indígena degli anni Ottanta, cioè l’emergere di movimenti indigeni che a livello nazionale e internazionale articolarono percorsi paralleli di rivendicazione e negoziazione dei diritti, ottenendone, negli anni Novanta, l’accoglimento nelle riforme degli ordinamenti e con l’approvazione della Convenzione OIL 169 sui popoli indigeni e tribali in Stati indipendenti (1989) e della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui popoli indigeni (2007).

Quanto ai contenuti, innanzitutto il riconoscimento della loro esistenza o preesistenza etnica e culturale da parte dello Stato in cui vivono, cui si aggiungono i diritti indigeni per eccellenza, cioè diritti collettivi o comunitari di proprietà sui territori tradizionalmente occupati e sulle relative risorse naturali (land rights), che s’intrecciano con il diritto delle comunità d’essere informate e di esprimere il consenso sui progetti di sfruttamento o che interessino i loro territori, con quello di godere degli eventuali benefici derivanti da tali progetti e, infine, con la garanzia della conservazione e del rispetto dell’habitat. Essi rivelano il legame delle comunità con il proprio territorio ma anche la loro fragilità, poiché faticano ad essere attuati e rispettati, benché siano stati riconosciuti da quasi tutti i paesi dell’area con diverse sfumature, poiché s’intersecano con progetti di sfruttamento di quelle stesse aree e delle loro risorse naturali promossi dai recenti governi progressisti che li dovrebbero attuare e tutelare e che, invece, nel perseguire gli obiettivi del neo-extractivismo degli ultimi anni coinvolgono spesso quei territori ricchi di risorse naturali, facendo emergere il delicato problema di bilanciare la disponibilità di risorse per lo sviluppo economico sul piano nazionale e il rispetto delle terre delle popolazioni originarie: temi caldi che ritroviamo in Argentina, in Brasile e persino nella tanto apprezzata Bolivia di Morales, primo Presidente aymara, al potere dal 2006 e promotore della riforma costituzionale del 2009 in chiave plurietnica e multiculturale.

Non meno importante è un altro nucleo di diritti: la partecipazione politica, una certa autonomia di governo, il ricorso al diritto consuetudinario per la soluzione di alcune controversie e il diritto a un’educazione bilingue e interculturale per manifestare e sviluppare le rispettive culture e contribuire all’identità nazionale.

Marzia Rosti
Università degli studi di Milano

21/03/2017

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