Cala il sipario su questi otto anni di Obama alla Casa Bianca. E fioccano, inevitabili, i bilanci e i giudizi sul primo Presidente nero nella storia degli Stati Uniti: su quanto radicale e profonda sia stata la svolta seguita alla sua elezione nel 2008; sui suoi più importanti successi e fallimenti; sulla sua eredità. Vi sono, com’è inevitabile che sia, luci e ombre sulle quali generazioni di storici si eserciteranno negli anni a venire.
Tuttavia qualsiasi riflessione non può prescindere da una comparazione tra la situazione degli Usa nel 2008 e quella che Obama lascia oggi in eredità a Trump.
Obama fu eletto nel mezzo di (e in parte grazie a) il convergere di due drammatiche crisi provocate dal fallimento del disegno strategico dei Bush e dei neoconservatori in Medio Oriente e dall’esplodere della bolla causata dall’intreccio perverso tra speculazione immobiliare e finanziaria. Al combinato disposto di queste due crisi, che contribuivano a determinare un significativo indebolimento degli Stati Uniti, Obama ha risposto in quattro modi. Ha innanzitutto usato l’intervento pubblico sia per rilanciare la domanda sia per cercare di rendere più concorrenziale, ed efficace, un sistema manifatturiero fattosi negli anni sempre meno competitivo. Venuta in parte meno la leva dei consumi a debito come strumento, paradossale ma potente, di costruzione del consenso e come sorta d’indiretto ammortizzatore sociale, ha cercato d’intervenire su alcune delle storture più marcate di un sistema che generava squilibri di reddito e forti diseguaglianze. Terzo aspetto: ha modificato pratiche e, ancor più codici discorsivi, della politica estera statunitense. Riducendo gli impegni e l’esposizione internazionale del paese e manifestando crescente scetticismo sulla possibilità di utilizzare quello strumento militare che a oggi rappresenta l’elemento di potenza ove maggiore rimane lo scarto tra gli Usa e il resto del mondo. Quarto aspetto: ha offerto un messaggio inclusivo e moderato con cui rispondere a processi di polarizzazione che lacerano e dividono gli Stati Uniti come raramente è avvenuto nella loro storia recente.
I risultati sono stati parziali ma non irrilevanti. Quanto ottenuto ad esempio sul terreno delle politiche economiche e sociali non deve essere sottostimato, come sembra invece avvenire anche in conseguenza dell’elezione di Trump. Dopo il 2009 il PIL statunitense è cresciuto al ritmo di circa il 2% annuo e la disoccupazione è scesa sotto il 5%. Risultati dignitosi e finanche eccellenti se confrontati con quelli dei paesi dell’area UE, a maggior ragione se si considera la quasi impossibilità di governare conseguita all’azione ostruzionistica promossa dai repubblicani al Congresso dopo il 2010. La contestata riforma sanitaria, pur tra mille problemi ed evidenti fragilità, ha prodotto il maggior ampliamento della copertura sociale dagli anni Sessanta a oggi, quasi dimezzando la percentuale della popolazione priva di un’assicurazione (dal 16 al 9% circa). Gli stessi indicatori di diseguaglianza hanno visto una leggera correzione: tra il 2015 e il 2016 vi è stata la più significativa riduzione del tasso di povertà dal 1999 (in pieno boom economico clintoniano). Progressi, questi, accompagnati dalle conquiste in materia di diritti degli omosessuali, dai provvedimenti federali sul salario minimo e dallo sforzo per porre fine al differenziale nelle retribuzioni di uomini e donne.
Quella di Obama è un’America che ha cercato di farsi più giusta e inclusiva, anche andando a toccare politiche che apparivano politicamente inavvicinabili, inclusa quella “tolleranza zero” sulla micro-criminalità che ha colpito in modo preponderante gli afro-americani. Ed è anche in conseguenza di questo – dei successi di Obama ben più che dei suoi fallimenti – che si è assistito alla reazione, imprevedibile nelle forme e nella radicalità, di quella parte di America che ha infine spinto Trump alla Casa Bianca.
Mario Del Pero
Professore di Storia Internazionale al Centre d’Histoire di SciencesPo, Parigi.
19/01/2016