Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Tra nomadismo moderno e nomadismo contemporaneo

Il 6 ottobre ricorre l’anniversario della nascita di Le Corbusier, una delle figure più influenti della storia dell’architettura contemporanea e in generale della cultura del XX secolo.

Maestro del Movimento Moderno, sostenitore del nuovo spirito di un’architettura razionale – basata su una forte coerenza e un’imprescindibile relazione tra esigenze costruttive, funzionali ed estetiche – nacque in Svizzera da una famiglia francese, ma subito dopo la scuola d’arte, grazie ai primi incarichi di progettazione, cominciò a viaggiare. Si spostò attraverso tutta l’Europa, fino all’Asia, incontrando via via le figure più rilevanti dell’epoca, arricchendo il suo percorso formativo e appuntando abilmente note, disegni, calcoli, incontri, riflessioni all’interno dei suoi celebri carnets. Questo fece di lui un’artista cosmopolita, in grado di progettare in Europa, negli Stati Uniti, ma anche in Russia, in Giappone, fino all’India, dove gli fu affidata la progettazione di un’intera città, Chandigarh.

È grazie a Le Corbusier che l’architetto diventa una figura più flessibile, un trasformista, capace di intervenire ogni volta in un contesto diverso, spostandosi di città in città e adattando i propri progetti teorici, e allo stesso tempo di sviluppare progetti unici, irripetibili. Perché ciò avvenga, l’architetto comincia necessariamente a vestire i panni del cronista, dell’esploratore, in grado di leggere, studiare e reinterpretare la diversità dei paesaggi con cui si relaziona, non limitando, così, sé stesso al ruolo di progettista e costruttore.

Questa sua formazione nomade e curiosità per le diversità urbane, lo avvicinerà negli anni sempre di più alla disciplina urbanistica, considerata da lui come “una chiave, la maniera di sentire e d’agire di un’epoca, la conseguenza di un modo di pensare introdotto nella cosa pubblica da una tecnica dell’azione”.

Tutte le riflessioni di Le Corbusier, infatti, trovavano le loro radici nella carica sociale, trasportata poi trasversalmente in tutte le sue elaborazioni progettuali: l’architettura e l’urbanistica devono necessariamente fornire delle risposte alla società industrializzata, devono ricreare un rapporto tra esigenze economiche e bisogni umani che contribuisca al ritrovamento di un equilibrio territoriale per la città.

Nel 1954 Le Corbusier fu invitato a partecipare al Congresso Internazionale di studio sul problema delle aree arretrate tenutosi a Milano. All’interno del suo intervento il celebre architetto ragiona sul disallineamento che intercorre tra la condizione di arretratezza in cui si trovano non solo territori ai margini o in stato di abbandono, ma anche alcune aree all’interno della città – tutte allo stesso modo l’esito inestricabile di alcune scelte avvenute nel passato – e la contemporaneità invece della disciplina urbanistica e del momento stesso in cui viene attuata. Questo, secondo lui, impone la necessità di una “dottrina dell’urbanistica”, che non si limiti esclusivamente alla dimensione regolativa e di controllo – fatta di logiche quantitative e di norme e standard – e che non sia strozzata dalla pressione degli interessi particolari, ma che sia al contrario attiva, costruttrice, dotata di un’indispensabile capacità di lettura delle condizioni di contesto in cui interviene,e conseguentemente in grado di fornire soluzioni adatte ai bisogni della società.

Esemplificativo di questa riflessione è, secondo l’architetto, il continuo tentativo di costruire la “casa familiare”, l’illusione che alloggi per famiglie sedentarie, composte da genitori e uno, due, tre figli, costituiscano l’unica modalità di soddisfacimento dei bisogni della collettività.

“Il mondo attuale è fatto di nomadi. Questi nomadi occupano agglomerati. Passano da un alloggio all’altro, nel corso della loro vita” argomentava Le Corbusier nel 1954. Ed è in questa direzione che l’urbanistica dovrebbe muoversi, dotando una società sempre di più nomade di adeguati strumenti che rispondano a bisogni specifici, nuovi ma attuali. Quando ciò non avviene, la causa è riconducibile a un’incapacità sostanziale di leggere e reinterpretare le trasformazioni e le evoluzioni, sessant’anni fa in epoca moderna ma ancora di più nella contemporaneità, in cui le condizioni di nomadismo attraversano trasversalmente, per scelta o per necessità, tutta la società.

Una società che richiede di essere letta e compresa in tutta la sua evidenza e non appiattita e ricondotta agli schemi di un’urbanistica troppo rigida e spesso incapace di rinnovarsi, di interrogarsi criticamente e creativamente e di mettere in discussione l’apparato consolidato di metodi e tecniche che la disciplina ha sempre utilizzato per costruire i propri quadri analitici.

La condizione nomadica ha origini lontane nel tempo e nella società contemporanea ha assunto modalità e significati diversi e quanto mai precisi, in rapporto ad una concezione del luogo che non risulta essere più tanto legata ad una localizzazione geografica puntuale, quanto più ad una serie di relazioni che oggi sono in continua trasformazione per motivi sociali, economici, di lavoro e che determinano delle condizioni che possono essere definite di neo-nomadismo. Neo perché il nomadismo, pur avendo segnato la storia del genere umano fin dalle sue origini, sarebbe stato progressivamente sostituito, seppure non ovunque, da una sedentarietà necessaria allo sviluppo della civiltà industriale. In questa prospettiva, nell’epoca delle interconnessioni globali, forme di neo-nomadismo sarebbero dunque tornate sulla scena, modificando lentamente dall’interno le strutture sociali, economiche e giuridiche.

La mobilità e la flessibilità lavorativa, il problema dei senza tetto o degli immigrati, la questione dell’emergenza in seguito a catastrofi naturali sono tutti aspetti della vita contemporanea che per loro stessa natura contemplano una condizione di transitorietà, di spostamento nel tempo e soprattutto nello spazio, per i quali l’architettura e l’urbanistica possono rappresentare i luoghi concettuali di sperimentazione.

È in questo contesto, dunque, che l’uomo nomade abbandona la casa come sede privilegiata della sua esistenza, si proietta verso un esterno sempre più mutevole e lontano, spostando la propria residenza e il proprio domicilio nel luogo in cui di volta in volta, e per un tempo variabile, egli si trova a sostare. Non radicandosi in un luogo determinato egli fa automaticamente proprio il paradigma della deterritorializzazione, per cui da un lato rifiuta il legame con un territorio fisso, perpetuo, dall’altra percepisce tutto il mondo, o quasi, come un possibile campo d’azione.

E se questo nomadismo diviene la forma più naturale del vivere umano, esso non può che entrare in conflitto con la struttura territoriale e gli strumenti di pianificazione degli ordinamenti vigenti, e non può che imporre un cambio di fisionomia e un nuovo assetto urbanistico delle città per ripensare le modalità dell’abitare dell’uomo nel mondo.

Si tratta di sfide urgenti per l’urbanistica, che riguardano la mutazione sostanziale degli scenari urbani e che impongono lo sviluppo di nuovi modelli insediativi e abitativi, di strategie territoriali, di differenti approcci e di pratiche anche sperimentali. Queste dovrebbero essere orientate a gestire la flessibilità, il movimento e la trasversalità tipiche delle trasformazioni in corso e a sfruttare tutte le potenzialità proprie del nuovo nomadismo, rappresentate dai saperi, dalle conoscenze, dalla dinamicità dell’umanità e da modalità alternative dell’essere e del fare società.

Concludeva Le Corbusier sessant’anni fa, sostenendo che uno dei doveri dell’urbanistica dovrebbe essere quello di rappresentare l’espressione del modo di agire e di vivere di un’epoca, garantendo libertà individuale e allo stesso tempo sfruttando i benefici dell’azione collettiva.

Ilaria Giuliani
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

06/10/2016


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Dal patrimonio bibliografico della Fondazione

Nel 1954 Le Corbusier fu invitato a partecipare al Congresso Internazionale di studio sul problema delle aree arretrate tenutosi a Milano.
Di seguito, il testo digitalizzato del suo intervento tratto dal patrimonio bibliografico di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

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