Inquadrare oggi cosa si intende per decrescita non è difficile. Serge Latuche si è incaricato in più occasioni di precisarne origine e contenuti e chiarire i possibili malintesi. Possiamo quindi rifarci senza problemi ad una delle sue ottime, sintetiche, presentazioni:
“L’espressione «decrescita» fa la sua comparsa come slogan provocatorio nel febbraio del 2002, per denunciare la mistificazione dell’ideologia dello sviluppo sostenibile. Questa «parola proiettile», questa «bomba semantica» (Paul Aries dixit) vuole rompere il consenso rassegnato all’ordine produttivista dominante. Per tentare di salvare la religione della crescita di fronte alla crisi ecologica, l’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) aveva lanciato la parola d’ordine dello sviluppo sostenibile, ossimoro geniale in termini semantici, ma che non è riuscito a risolvere il problema, perché lo sviluppo, per sua essenza, non è sostenibile.
Lanciata dunque, quasi per caso, la decrescita, almeno all’inizio non è un concetto e in ogni caso non è il corrispondente simmetrico della crescita. La decrescita non è né la recessione né la crescita negativa. Diventata rapidamente la parola d’ordine e la bandiera di tutti quelli che aspirano alla costruzione di una vera alternativa ad una società dei consumi ecologicamente e socialmente insostenibile, la decrescita costituisce ormai una finzione performativa che indica la necessità di una rottura con la società della crescita. Più rigorosamente, si dovrebbe parlare di a-crescita, così come si parla di a-teismo. Perché si tratta per l’appunto dell’abbandono di una fede e di una religione: quelle del progresso e dello sviluppo. Si tratta di diventare degli atei della crescita e dell’economia. La rottura operata dalla decrescita implica di conseguenza una decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile. Si tratta di uscire da una società della crescita, cioè da una società fagocitata da un’economia che ha come solo obiettivo la crescita per la crescita, e la cui logica non è di far crescere la produzione per soddisfare dei bisogni, ma di farla crescere all’infinito con il pretesto dell’illimitatezza dei consumi e con la conseguenza dell’aumento insensato dei rifiuti e dell’inquinamento. Insomma, la distruzione del pianeta”. (S. Latouche, Prefazione, in M. Bonaiuti, La grande transizione, Bollati Boringhieri, 2013).
Si tratta semmai di chiarire quali possano essere le relazioni della decrescita con gli altri approcci alternativi all’economia dominante (Mancini, 2014). Innanzitutto va detto che la decrescita non è, e non va confusa, con le varie pratiche di altra economia, (nonprofit, gruppi di acquisto solidale, commercio equo, finanza etica ecc.). Questo per la semplice ragione che la decrescita rappresenta qualcosa di ben più ampio di una buona pratica, anche se le buone pratiche possono ispirarsi, come no, ad una società di decrescita. Essa presuppone infatti una radicale riconsiderazione dei fondamenti culturali, antropologici e dunque anche delle forme politiche ed istituzionali della modernità occidentale. Quando Latouche insiste che occorre “uscire dall’economia” intende appunto la necessità di questa rifondazione, la necessità della creazione di un nuovo immaginario istituente. Questo ha portato alcuni fautori della decrescita, a vedere criticamente quegli approcci all’economia sociale e solidale che non mettono in discussione questi fondamenti ed in particolare la centralità del mercato e della crescita all’interno delle economie capitalistiche avanzate. Per questa ragione lo stesso Latouche non esita affermare che anche l’economia sociale e solidale, nella prospettiva della decrescita va posta in discussione.
Qui tuttavia occorre, a mio avviso, andare un poco più in profondità. Quando Latouche usa l’espressione “economia solidale,” egli ha in mente qualcosa di non molto lontano dalle cooperative sociali francesi. In questo senso si capiscono le sue perplessità: non si tratta infatti (penso in particolare al modello delle “tre sfere di Laville”) di approcci radicalmente alternativi, quantomeno nel senso che questi non sono finalizzati alla progettazione di un modello di società in qualche modo “autonoma” rispetto alla grande Economia di Mercato.
Diverso è, mio avviso, il discorso relativo ai alla Rete e ai Distretti di Economia Solidale in Italia, quantomeno nei suoi presupposti originari (vedi la Carta dei principi RES). L’idea è precisamente quella di fare dei Distretti delle reti autonome (non autarchiche) e, quantomeno in prospettiva, regolate da altri principi e istituzioni rispetto a quelli a quelli tipici di un’economia di mercato. Il modello di riferimento è più quello delle reti di economia solidale latino-americane teorizzate e descritte da Euclides Mance. Va riconosciuto tuttavia che il pragmatismo di questi mondi, oltre a una certa difficoltà a confrontarsi con i modelli teorici, ha creato sino ad oggi frequenti ambiguità.
In questa prospettiva credo si possano leggere anche i rapporti, sin’ora deboli e poco chiari, con gli altri approcci all’economia solidale, con le quali le collaborazioni e le aperture sono a mio avviso assolutamente auspicabili, ma che tuttavia possono essere avviate solo a partire dalla massima chiarezza negli obiettivi di lungo periodo. Le collaborazioni con i fautori dell’economia del bene comune e dell’economia civile, ad esempio, sono a mio avviso assolutamente auspicabili, una volta che si chiariscano le diverse prospettive di tempo lungo, in particolare per quanto attiene al superamento del modello capitalistico e al ruolo dei mercati. La diversità sin’ora riscontrata nelle prospettive di lungo periodo non esclude possibili alleanze su obiettivi intermedi, spesso comuni. Non credo, ad esempio, che la maggior parte dei sostenitori della decrescita intenda abolire gli scambi di mercato, si tratta semmai di reinserirli all’interno di nuove forme sociali (come quelle previste all’interno dei Distretti) ripensandone quindi dimensioni (scala), regole e limiti, tutti aspetti sui quali già esistono già ampie convergenze tra i diversi approcci.
Va infine ricordato che la decrescita, oltre a presentarsi come progetto culturale e politico, come orizzonte di senso per una pluralità di esperienze economiche alternative, ha sviluppato anche importanti contributi sul piano dell’analisi e della ricerca. Da questo punto di vista è stato sottolineato come la crisi attuale, ben lungi dall’essere una semplice, per quanto grave, crisi economica, è piuttosto il segno di un declino di tempo lungo delle società occidentali, iniziato quantomeno dagli anni Settanta e che si esprime nella progressiva difficoltà che le principali istituzioni e settori economici incontrano nell’affrontare e risolvere le proprie difficoltà. In altre parole l’occidente sembra entrato in una fase di rendimenti marginali decrescenti (Tainter, 1988, Bonaiuti, 2013). Mano a mano che le società capitalistiche avanzano di fatto verso il proprio declino, il carattere disfunzionale del sistema capitalistico sarà sempre più evidente e le differenze e i conflitti tra le diverse forme di economia alternativa potrebbero allora apparire secondarie rispetto all’inadeguatezza del sistema dominante. Comprendere questa prospettiva evolutiva è di cruciale importanza affinché i diversi approcci alternativi possano riconoscersi all’interno di una medesima cornice di riferimento, dunque come agenti della stesso processo di transizione verso un nuovo modello di società.
Mauro Bonaiuti
Università degli Studi di Torino
02/09/2016
Consigli di lettura
Patrimonio immateriale: mestieri e culture che fanno futuro è il risultato del Convegno svoltosi a Villa Reale di Monza il 22 e 23 ottobre 2015 a cui hanno partecipato amministratori pubblici, rappresentanti del mondo culturale, esperti, operatori del territorio, docenti di rilievo internazionale, con l’obiettivo di stimolare una riflessione sul ruolo del patrimonio immateriale e della cultura come motori di sviluppo.
> VAI ALLA PAGINA
> SCARICA L’EBOOK