Benvenuti nel fanatismo.
Da sabato scorso siamo entrati ufficialmente nel tunnel del fanatismo.
Perché il comico Francesco Paolantoni che dice “Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono napoletani” (o negri, o rom, ognuno ci metta la variante che meglio crede) ci fa ridere e Vittorio Feltri che dopo l’episodio di Fermo scrive che noi non siamo razzisti (e comunque, anche se fosse, loro sono peggio) non ci fa più ridere?
Perché, ci direbbe Shaftesbury nella sua Lettera sull’entusiasmo (ma più correttamente si dovrebbe intitolare “Lettera sul fanatismo”, con questo titolo a settembre Chiarelettere la manderà in libreria), nei venticinque anni circa che separano Francesco Paolantoni e Vittorio Feltri è accaduto questo: nella discussione pubblica abbiamo espulso l’ironia. Qualsiasi esperienza collettiva che a-priori espella l’ironia è destinata a divenire dittatoriale, perché non disposta a sopportare un’opinione diversa dalla propria.
Dunque prima regola: mai staccare gli occhi dalla palla.
La palla non è Amedeo Mancini, l’uomo di Fermo che ha ucciso Emmanuel Chidi Namdi. La palla è la forza e l’efficacia della retorica razzista.
La retorica razzista è di moda, è efficace ed è imbattibile, almeno ora, per due buone ragioni:
La prima. Come effetto della inconsistenza della retorica antirazzista che nella maggior parte dei casi si risolve nel rimprovero di esser razzisti. Ovvero nella convinzione che basti pronunciare la parola perché l’effetto sia l’abbandono delle proprie posizioni e delle proprie convinzioni. Appunto nell’abbandono della capacità graffiante dell’ironia. Perché l’ironia è un mezzo. La sua funzione è obbligare chi è oggetto di ironia a proporre argomenti e prove sulla fondatezza della propria convinzione. Dunque, per concludere su questo primo punto, la retorica antirazzista con il suo “ditino alzato” non obbliga a produrre prove sula fondatezza delle convinzioni razziste. Anzi le accredita come “anticonvenzionali” e dunque le dota del fascino del pensiero alternativo e perciò “nuovo”.
La seconda. Il principio di genericità a cui la retorica razzista risponde fa il paio con quella antirazzista. Sul piano di genericità vince l’opinione che richiede meno sforzo e che chiede solo di essere ciò che si è. E la dimensione “naturale” di tutti noi è di avere una buona percentuale di idiosincrasia per chi è diverso, perché la diversità obbliga a trovare delle mediazioni, costringe a contrattare, a investire su una idea di futuro in cui alcuni dati si perdono in nome di un progetto di “buona qualità di vita” domani. Insomma, non siamo naturalmente né non razzisti, né democratici (come non siamo naturalmente “educati, “accoglienti” o “altruisti”). Tutte le condizioni e le scelte che mettono in questione parti di sé, in funzione di un possibile vantaggio presumono un investimento, esprimono un carattere artificiale della politica. La quale appunto presume rinunce, e soprattutto impegno. Essere democratici è un vantaggio solo se si riesce a pensare “collettivo”, non se si ragiona “branco”.
Dunque, per concludere su questo secondo punto, la dimensione naturale della politica si basa sulla contrapposizione “noi” VS “loro” (islamici, rom, meridionali, cinesi, ebrei…), non chiede una dimostrazione, sceglie un “dato di fatto”, non lo spiega, lo “ripete” fino a farlo diventare argomento. Racconta “fatti” – ovvero sceglie “clip” di realtà – e li costruisce e li propone, direbbe Manzoni, come “il sugo della storia”.
La retorica che adotta è omologa a quella del qualunquismo o a quella dell’antipolitica. Parte da una visione vittimistica e vittimizzata della realtà e ha come presupposto la propria autoassoluzione.
In epoca di risentimento, bisogna riconoscerlo, è una vittoria a mani basse.
David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
11/07/2016