“È in nostro potere ricominciare il mondo daccapo”. Così chiosava Thomas Paine nel gennaio 1776 in Common Sense, il pamphlet più letto dell’epoca nelle colonie americane. Così cominciava uno dei miti dell’eccezionalismo americano: la terra della libertà. Con la Dichiarazione d’Indipendenza pubblicata il 4 luglio dello stesso anno fu sancito il passaggio dai diritti dei sudditi inglesi nati liberi ai principi della libertà universale contro il dispotismo. Più tardi il “Bill of Rights” garantì la libertà di parola, di stampa e di religione, tutte contenute nel Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti.
L’idea di una libertà universale e la realtà di una società segnata da ineguaglianze avrebbero però travagliato la vita pubblica americana per molto tempo a venire.
Si deve agli abolizionisti che lottarono contro la schiavitù e alla Guerra Civile un’idea di libertà come valore umano e di nascita. La libertà come sicurezza economica fiorì nell’epoca del New Deal mentre la libertà divenne foriera di uguaglianza e protezione delle minoranze nella stagione dei diritti civili negli anni Sessanta del Novecento. Poi dagli anni Ottanta si affermò la libertà come libero mercato e individualismo. Gli Stati Uniti si misero a capo del “mondo libero” durante la “Guerra fredda” e in nome della libertà intrapresero la lunga offensiva al terrorismo internazionale sotto la presidenza di George W. Bush.
La libertà negli Stati Uniti è un concetto “contestato”, rimodellato da chi se ne è appropriato nel discorso pubblico. Dopo grande ricorrere nell’epoca Bush il linguaggio della libertà è uscito ridimensionato dalla retorica di Barack Obama. E sembra che anche nelle ultime primarie per le presidenziali di novembre il termine “libertà” sia passato in secondo piano.
Nel 1998 lo storico Eric Foner nell’introduzione alla sua Storia della libertà americana scrisse: “Questioni quali la giustizia e l’ordinamento economico o le relazioni tra gruppi razziali e gruppi etnici, considerati in molti paesi problemi di uguaglianza o convivenza civile, vengono qui affrontate soprattutto in termini di libertà”.
Si ha oggi invece l’impressione che questa attitudine si sia affievolita e che cittadini e politici abbiano iniziato a chiamare le fratture socio-economiche con il loro nome e non più come termini di misura della libertà. Il candidato alle primarie democratiche Bernie Sanders, che ha avuto largo seguito tra i giovani, si è ispirato a misure di redistribuzione del reddito e di welfare dichiaratamente social-democratiche, con l’aggiunta di strali contro i potentati di Wall Street. Lo stesso sentimento anti-establishment che ha consegnato la vittoria delle primarie repubblicane al magnate Donald J. Trump è attribuibile al risentimento della classe lavoratrice bianca per lo sgretolamento della propria stabilità economica.
Non c’è dunque spazio per una visione della libertà in questa ultima competizione elettorale? La risposta si può trovare nella virulenza con cui la campagna e l’elettorato di Trump si sono scagliati contro la cosiddetta “correttezza politica”. Negli ultimi vent’anni i giovani e la fasce più istruite della popolazione statunitense sono diventati gradualmente più progressisti, promuovendo la tolleranza della diversità, l’uguaglianza di genere e l’espressione della propria sessualità. E’ contro questa “correttezza politica” che l’elettorato di Trump si batte, galvanizzato dalle esternazioni xenofobe, sessiste e contro la classe dirigente del magnate newyorkese. La politica convenzionale è percepita come una serie di regole e imposizioni dell’establishment che limitano la libertà del singolo cittadino, quell’autonomia ispirata al repubblicanesimo civico intrisa di individualismo. Sull’altro fronte, a rappresentare l’etica liberal, c’è l’afflato femminista di Hillary Clinton, prima donna ad essere nominata candidata presidenziale per un grande partito, che porta con sé la difesa delle minoranze e la lunga stagione delle battaglie per le civili liberties.
Ritorna quindi, sotterranea, l’incrinatura tra la declinazione della libertà come ideale individualista e conservatore da un lato e valore di emancipazione progressista dall’altro. La posta in gioco è però alta, perché l’avversione degli elettori di Trump per le regole del dibattito civile mostrano una disaffezione verso la democrazia liberale. Alcuni commentatori come Fareed Zakaria hanno visto nel successo di Trump un possibile grimaldello per una deriva autoritaria o “democrazia illiberale”. Per questo spettro, insieme alla diffusione di populismi e demagogia, gli Stati Uniti non sono affatto un’eccezione rispetto all’Europa.
Marta Gara
Giornalista e storica
04/07/2016