Università di Pavia

Mentre le insidie connesse ad un possibile recesso del Regno Unito dall’Unione europea sono oggetto di minuziosa analisi, anche a titolo di terrorismo psicologico pre-elettorale, poca attenzione viene dedicata a cosa comporterebbe una possibile permanenza. Questa seconda opzione, però, non sarebbe un mero mantenimento dello status quo; al contrario, essa comporterebbe diverse implicazioni – peraltro, di più facile vaticinio.

Il 19 febbraio i capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’Unione (ergo, non le istituzioni dell’Unione) hanno raggiunto un accordo su alcuni obiettivi fondamentali che dovranno essere perseguiti, attraverso modifiche legislative a diversi livelli e solamente in caso di “Bremain”, per rimodellare i rapporti tra Unione europea e Regno Unito. Londra ha parzialmente ottenuto le concessioni richieste; queste spaziavano da rivendicazioni puramente simboliche in materia di sovranità nazionale ad altre, ben più pragmatiche, per limitare il “turismo sociale” (ovvero, lo spostamento in altri Paesi per goderne del sistema di welfare) e per tutelare la City londinese da una maggiore integrazione tra i Paesi della sola Eurozona.

Brexit_is_the_road_to_democracy_-_Google_Search_-_2016-05-17_04.01.47Beninteso: a differenza di quanto sventagliato per finalità elettorali, questo documento contiene essenzialmente impegni politicamente, e non giuridicamente, vincolanti. Inoltre, la portata rivoluzionaria di alcune richieste britanniche è stata debitamente (e, come di consueto nella diplomazia internazionale, sottilmente) imbrigliata e depotenziata in maniera tale da ricondurla il più possibile in armonia con il quadro giuridico esistente – o, comunque, in maniera da poter raggiungere tale obiettivo in fase di attuazione concreta degli impegni. Questi ultimi, infatti, dovranno essere attuati con norme ad hoc o con modifiche di regole esistenti, che coinvolgeranno istituzioni che non sono parte dell’accordo (su tutti, il Parlamento europeo e  i Parlamenti nazionali; per certi versi, la Commissione europea) e che, quindi, ben potrebbero impedire il raggiungimento degli obiettivi in esso definiti.

Rimane, però, un dato politico inconfutabile: in caso di permanenza del Regno Unito, l’Unione europea dovrà prodursi in equilibrismi giuridici per garantire ad un singolo Stato membro una serie di concessioni specifiche. Non sarebbe la prima volta, certo, ma rischia anche di non essere l’ultima: i partiti euroscettici (e quelli moderati che, per esigenze elettorali, concedono qualcosa ad essi) ben potranno richiedere che anche Italia, Francia, Olanda o Germania negozino con l’Unione europea una serie di concessioni ad hoc per venire incontro alle proprie specificità nazionali.

In caso di Brexit, l’Unione europea – ovvero, i governi nazionali e le componenti politiche e sociali che credono nel processo di integrazione: che sia chiaro su chi ricadrebbero le responsabilità – sarà chiamata ad un forte colpo d’ali per mostrare che, nonostante l’abbandono di un Paese geopoliticamente fondamentale, il progetto europeo può comunque andare avanti. In caso di Bremain, invero, la situazione non sarà molto diversa: occorrerà ugualmente mettere un argine alla continua richiesta di modalità specifiche di adesione al processo di integrazione, per scongiurare che altri Paesi seguano il modello britannico minacciando altri referendum.

In ambo i casi, dunque, un manifesto che sappia rilanciare la credibilità del progetto europeo è quanto mai necessario. Perché si può anche essere uniti nella diversità, purché non ci si racconti che sia la sola diversità ad unire.

Jacopo Alberti
Università di Pavia

23/06/2016

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 16160\