Quantitative Research Manager, BBC

Crisi economica, crisi della rappresentanza, crisi migratoria. Gli ultimi anni hanno visto un susseguirsi di crisi per l’Europa, al punto che in crisi è entrata la stessa idea di un’Europa unita.

Il referendum britannico del 23 giugno rischia di certificare il fallimento di un progetto iniziato quasi settant’anni fa. A prescindere dall’esito della consultazione, la sola idea che un grande paese membro possa abbandonare quel progetto ne testimonia la precarietà, la relatività. Sfata definitivamente il mito di un processo di integrazione inesorabile. Lento, anche ostico a tratti, ma inevitabilmente orientato ad un’integrazione sempre più forte tra gli Stati membri. Anche se il Regno Unito scegliesse di restare in Europa, l’aver posto il tema della brexit ha chiuso definitivamente il sipario sui progetti di federazione del continente [per approfondire, clicca qui -> e leggi l’editoriale di David Bidussa Perché Brexit non è una novità].

Rimangono le regole, spesso osteggiate, del mercato unico. E l’Europa, un tempo progetto e ideale di unità politica, si condanna ad un destino da semplice (e controversa) organizzazione economica regionale.

Dov’è si è inceppato il meccanismo? Quand’è che il progetto degli “Stati Uniti d’Europa”, di cui Altiero Spinelli è stato il più autorevole sostenitore, è divenuto un anacronistico lascito della storia?

L’integrazione, avanzatissima in campo economico, non si è estesa all’ambito politico per le resistenze dei governi nazionali, gelosi delle loro prerogative. Temi come la fiscalità, il lavoro, la gestione delle frontiere e dei flussi migratori sono rimasti di fatto di competenza nazionale. L’assenza di un vero bilancio europeo ha impedito di affrontare la crisi economica globale in modo coerente e coordinato, lasciando i singoli paesi membri intervenire alla meno peggio e in ordine sparso. La mancanza di un potere di spesa effettivo inibisce la possibilità di stimolare investimenti e di attuare politiche industriali per far fronte al dramma della disoccupazione nell’Europa del Sud e non solo. E la crisi migratoria mette giorno dopo giorno in luce gli egoismi nazionalistici e le diffidenze reciproche dei governi degli Stati membri.

 

carte ancienne / old map - Europe (Alexandre Vuillemin - 1843)
Cartina antica dell’Europa (Alexandre Vuillemin – 1843), clicca qui per ingrandire

 

Manca un “decisore unico”, manca un governo europeo. E se anche ci fosse probabilmente non sarebbe legittimato dal punto di vista democratico. L’Unione, infatti, non si è “democratizzata”: chi di noi può ritenere che le delibere delle istituzioni europee siano frutto di un dibattito trasparente e aperto alla cittadinanza? Esiste un’opinione pubblica europea? Esistono dei veri partiti o dei movimenti europei? Esiste una società europea?

Gli affari dell’Europa sono rimasti di competenza di una ristretta élite transnazionale, che parla le lingue e si muove giornalmente nei grandi aeroporti di Londra, Bruxelles e Berlino. Non esiste uno spazio pubblico europeo, e le elezioni europee sono tutto fuorché momenti in cui si dibatte di politiche europee o del destino dell’Unione.

L’Europa non appassiona. Non è seguita, non si fa seguire. Perché è stata “neutralizzata” dal punto di vista politico. Le misure europee non sono né di destra né di sinistra, nell’opinione comune. Sono scelte tecniche. Vengono valutate per la loro efficacia ed efficienza, semmai, ma non per la loro equità o giustizia. Al contempo, però, i governi nazionali hanno “le mani legate”, sono limitati nel loro potere decisionale dai “vincoli” europei. Come dire: la libertà d’azione politica è limitata da un sistema di vincoli che politico non è.

Questo deficit politico europeo lo paghiamo in tutti i settori. Dall’economia al lavoro, dall’ambiente all’immigrazione. Nell’era della globalizzazione nessun paese europeo, nemmeno la Germania, può essere davvero influente sullo scenario mondiale. Solo a livello continentale un’Europa unita può contare qualcosa, governare se stessa e contribuire al governo del pianeta. Ma governare significa prendere decisioni, anche drastiche e radicali quando occorre. Governare significa scegliere politicamente dove condurre la barca. E se l’Europa non è unita e non è politica non governa e si lascia trasportare dalla corrente.

Andrea Scavo
Quantitative Research Manager, BBC

14/06/2016


Biografia dell’autore

Festival delle GenerazioniRicercatore nell’ambito politico e sociale. Ha maturato esperienza in università e istituti di ricerca in Italia, Germania e UK, occupandosi principalmente di governance delle politiche di sviluppo e innovazione, Unione Europea, commercio internazionale e diritti dei lavoratori. Attualmente lavora come Quantitative Research Manager presso la BBC.

 

 


Approfondimenticover

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