Nel 2014, per via della destrutturazione delle tutele giuridiche del lavoro, in funzione della liberalizzazione del suo mercato si è innescato un processo di rovesciamento del rapporto tra lavoro e cittadinanza. Il decreto legge n. 34 di quell’anno e il Jobs Act, fondati sull’assioma della flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro, hanno generalizzato i contratti a termine e hanno spostato le forme di protezione del lavoro fuori del rapporto giuridico di lavoro. Il rapporto di lavoro (anche a tempo indeterminato) è stato del tutto privatizzato e il diritto del lavoro non ha più un oggetto.
La trasformazione attuale, considerata nel suo contesto globale, può essere comparata alla Grande Trasformazione (Polanyi) imposta dall‘alto con leggi, alla privatizzazione di terra, lavoro e beni comuni funzionale e alla nascita dell’economia di mercato autoregolato tra XVIII e XIX secolo. Considerata nel contesto nazionale, distrugge la nozione costituzionale del lavoro, cioè il lavoro quale base della cittadinanza e realizzazione della persona e della sua dignità, codificato nell’ art. 1 della Costituzione del 1947 e implementato dalla legge n. 300/ 1970 dello Statuto dei Lavoratori, attuativa delle norme costituzionali.
Come la dottrina giuridica che condusse all’abolizione della Poor Law elisabettiana nell’Inghilterra del 1834, le nuove categorie dei “lavori possibili ed eventuali” presumono infatti persone giuridiche precarie e impossibilitate a progettare dignità e libertà, se non per alcuni frammenti della loro vita. Le nuove categorie ribaltano quelle di “dignità sociale” e “libertà” formulate nella Costituzione.
Le differenti culture giuridiche economiche e politiche che concorsero all’elaborazione dl testo del 1947 continuarono a confrontarsi e a configgere negli anni successivi. Il conflitto tra linee e progetti diversi non impedì tuttavia di incardinare la libertà formulata nel testo costituzionale su un elemento profondamente egualitario e universalistico opponendosi al rigetto dottrinale liberale del diritto al lavoro, considerato dai giuristi liberali il fondamento della servitù politica e la fine delle libertà (secondo una linea che dall’ intervento pronunciato da Tocqueville all’ Assemblea Costituente francese del 1848 giunge sino al saggio di Hayek del 1944).
Il diritto al lavoro divenne anzi nella Costituzione italiana la premessa e la precondizione della libertà sociale, intesa come diritto positivo e “diritto politico del singolo verso la comunità”. Il paradigma della cittadinanza sociale democratica venne ancorato definitivamente alla nozione di repubblica del lavoro.
D’altro canto, una volta riconosciuto “a tutti i cittadini il diritto al lavoro” e “la promozione delle condizioni che rendono effettivo questo diritto” (art. 4) si poteva e si doveva presupporre anche un necessario intervento dello Stato, per coordinare e dirigere le attività produttive dei privati e della intera società “secondo un piano di massimo rendimento per la collettività”. Negli anni successivi diritto del lavoro ed economia di piano furono al centro di un ulteriore conflitto politico, sino ad essere definitivamente accantonati.
Michele Battini
Università di Pisa
08/06/2016
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