Il “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi” – il 9 maggio – è una ricorrenza a “bassa temperatura”. Una data che “non scalda”. Perché?
Si potrebbero addurre molte ragioni. Politiche, sociali, per certi aspetti si potrebbe perfino invocare la procedura dell’oblio, meglio quella della celebrazione come archiviazione, come una procedura che è parte di quella sceneggiatura profonda nel nostro Paese in cui una delle tecniche consolidate è quella di trasformare in data pubblica e dunque apparentemente condivisa, le questioni che necessitano di discussione.
Forse questa è la risposta e forse questo deriva dal fatto che l’ombra lunga di quella storia è ancora tra noi.
Ma accanto non dobbiamo dimenticare quelle che si potranno indicare come le spiegazioni culturali, prima ancora di quelle procedurali.
Il primo dato riguarda come noi, qui in Italia, abbiamo tentato di costruire un calendario civile a partire dalla fine della Prima Repubblica. In assenza di una storia nazionale su cui costruire il senso della cittadinanza, lentamente si è tentato di costruire un calendario sui giorni memoriali come nuova identità nazionale “in sintonia con l’Europa”, in affanno il 25 aprile, praticamente inesistente il 2 giugno, eclissate da tempo tutte quelle date che a diverso titolo hanno dato la forma di un “tour” per luoghi e per eventi alla costruzione della Nazione–Stato Italia, da Quarto dei Mille, alla pineta di Comacchio, (operazione tentata con scarso successo nel 2011 con il 150° dell’Unità) si è definito così un calendario che contemporaneamente investe su valori ed eventi tentando di costruire una dimensione pubblica del cittadino democratico italiano ed europeo.
Proposito nobile, ma allo stesso tempo debole. Per due motivi:
- perché un simile percorso regge fino a quando regge il mito politico che lo pone in essere (e la crisi dell’ida di Europa è un aspetto essenziale di questa crisi) e
- perché quel processo si definisce a partire da un categoria che è debole fin dall’inizio, ovvero ritiene che abbia carattere redentivo e dunque costruttivo una calendario dell’offesa.
Della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, del dovere, al centro del nostro calendario stanno le vittime. Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate, possibilmente in televisione; e più forte si grida più si sfondano le barriere dell’audience e dell’ascolto. Quasi che le emozioni siano merci e che sia il mercato a imporre le sue regole, nel controllarne la domanda e l’offerta. Non è al mercato che si può chiedere di costruire una forma di bene comune e tantomeno una religione civile.
E’ il tema su cui anni fa ha richiamato l’attenzione e lo storico Giovanni De Luna La repubblica del dolore, Feltrinelli quando ha ricordato come a partire dal 2000 si sia abbattuta una valanga di date. Oltre al 27 gennaio, abbiamo il 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe; il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo; il 12 novembre «giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace».
Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno scarso rapporto critico con la storia a partire dal fatto che abbiamo un rapporto allo stesso tempo fideistico e infastidito con le carte d’archivio, convinti e ad un tempo spaventati che dalle carte d’archivio possa emergere il vero (una mentalità che laddove si scontra con le procedure che rendono difficile o complicato l’accesso alle carte siamo portati a urlare che “qualcuno complotta perché non sia possibile raggiungere la verità”).
Dalle carte d’archivio non esce il vero, al massimo è deducibile o raggiungibile il “certo” una dimensione che appunto richiede impegno, costanza, e soprattutto attenzione vigile e domande. Non risposte né consolative né celebrative.
David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
09/05/2016