Il 16 giugno 1944, verso sera, ventotto uomini a gruppi di quattro sono condotti da una squadra della Gestapo in un prato a nord di Lione. Qui vengono fucilati. Marc Bloch, uno degli storici più eminenti della sua generazione – uomo della Resistenza ed ebreo –, era nel primo gruppo.

Perché un uomo di cinquattotto anni (Bloch era nato nel 1886) decide di entrare nella Resistenza, ed esporre così la sua vita, mentre gran parte della sua generazione «restava invece a casa»?

L’età non è mai stata una scusa per stare a casa o una giustificazione per scansare gli impegni. Tra le tante cose bisognava pensare: un nuovo ordinamento scolastico; una nuova educazione civica volta a fare i cittadini dell’Europa; una funzione pubblica dello storico. Tutti temi che Bloch sentiva propri da sempre.

Scrivere di storia non è mettere insieme e «in buon ordine» date o eventi. Del resto, questo non era mai stato il profilo della proposta culturale di Marc Bloch. È, invece, un’occasione per porre domande, per parlare nel presente e al presente, sapendo di avere tra le mani documenti e testi «fragili» che meritano rispetto, ma che chiedono anche di non essere venerati, bensì proposti per creare una sensibilità civile.

L’obiettivo era duplice:

  • far uscire la storia dall’esaltazione della nazione, il «recinto stretto» in cui l’avevano rinchiusa gli storici e gli intellettuali nel corso del XIX in tutta Europa;
  • contribuire a rinnovare temi e percorsi di indagine storica, come strumento ma anche come percorso per l’apprendimento di una pratica capace di generare nuova coscienza pubblica.

Ricorda Giovanni De Luna nel dialogo con Simonetta Fiori – che riprendiamo dalla serata di apertura (23 ottobre 2020) della seconda edizione di Che storia!, il festival di storia di Fondazione Feltrinelli – che «ricostruire, raccontare, interpretare» sono i tre movimenti essenziali che Bloch ha sperimentato e praticato in tutta la sua vita di storico. Ogni volta confrontandosi con una dimensione pubblica che spesso ha coinciso con una condizione di precarietà, di crisi, o di rimessa in discussione del senso comune.

Come scrive nell’ultima riga del suo Apologia della storia – il testo che Bloch compone in quei due anni di clandestinità e che l’arresto e poi la morte ce l’hanno consegnato incompiuto e interrotto – «le cause in storia non più che altrove, non si postulano, si cercano».

È l’ultima voce che ci è arrivata da Marc Bloch.

La funzione civile del mestiere di storico è un patto a cui Bloch non è mai venuto meno. Tanto meno nel tempo della sua clandestinità, quando si è trattato di “pensare domani” perché il presente – nonostante tutto spinga a stare a casa – chiede di predisporre dispositivi culturali e risorse per il tempo che verrà. Sta a noi fare in modo che sia il meno lontano possibile.

Scelta tanto più urgente se si è consapevoli di vivere «in tempi bui», ovvero in un periodo, per riprendere le parole di Hannah Arendt, «in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata».

Quello è il tempo per non tirarsi indietro, investendo con la propria intelligenza su un domani possibile. Ovvero deliberare di esserci, e dunque prendere parte in prima persona alla necessaria ricostruzione contrastando la xenofobia, i populismi, la politica urlata. Contro la caccia ai e la persecuzione dei «diversi» (per cultura, sensibilità politica).

Ottanta anni fa. Oggi.

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