di Rudi Bressa
Giornalista

“Questa transizione funzionerà per tutti e sarà giusta, oppure non funzionerà affatto”. Furono queste le parole della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante il discorso di lancio del Green Deal a dicembre 2019. Un messaggio fondamentale che tocca tutte le azioni che verranno messe in atto nei prossimi anni per raggiungere la transizione ecologica, ma che dovranno anche essere supportate da investimenti ingenti, politiche inclusive e visioni di lungo termine.

 

L’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 da una parte punta a un profondo cambiamento dell’intero sistema produttivo, con l’apertura a nuove opportunità economiche. Dall’altra però rischia di colpire intere fasce della popolazione che nella transizione vedranno il proprio lavoro cambiare o, nel caso peggiore, venire meno.

Per questo motivo, congiuntamente ai fondi del Next Generation Eu, la Commissione europea ha proposto la creazione di un meccanismo per una transizione giusta (Just Transition Mechanism), che include un fondo (Just Transition Fund) pensato principalmente per supportare le regioni e i settori che saranno maggiormente colpiti dalla transizione a causa della loro dipendenza dai combustibili fossili e dai processi industriali ad alta intensità di gas serra. “Abbiamo l’ambizione di mobilitare 100 miliardi di euro specificamente destinati alle regioni e ai settori più vulnerabili”, sottolineava von der Leyen.

 


Transizione giusta


“L’attuale modello produttivo ha creato delle esternalità di cui non si è tenuto conto. All’interno della transizione, l’aspetto socio economico è essenziale per ridurre le disuguaglianze e ridistribuire i guadagni della transizione”, spiega Giulia Colafrancesco, analista politica del think tank Ecco, dedicato alla transizione energetica e al cambiamento climatico. “La transizione di per sé non ci porterà a un modello economico e di sviluppo diverso se le disuguaglianze sociali rimangono le stesse che abbiamo in questo momento”.

 

Se guardiamo solo all’Italia, i settori cosiddetti hard to abate o energy intensive, ovvero quelli dell’acciaio, chimica, ceramica, carta, vetro, cemento e fonderie, contano oltre 700mila posti di lavoro. Senza contare il settore automotive, che dovrà fare i conti con la trasformazione già in atto e il passaggio dai motori endotermici a quelli a bassa intensità di carbonio. Tutti comparti dell’economia che vedranno grandi cambiamenti nei prossimi anni.


Nuova geografia del lavoro


Ma come sempre accade nelle questioni complesse, anche le varie soluzioni da mettere in campo sono variegate. E c’è un altro lato della medaglia. In uno studio realizzato da RFF-CMCC European Institute on Economics and the Environment in collaborazione con la University of British Columbia, Vancouver, e Chalmers University of Technology, si è fatta un’approfondita analisi dei posti di lavoro del sistema energetico globale e dell’impatto delle diverse politiche climatiche ed energetiche, mostrando che se rispettassimo l’obiettivo previsto dall’Accordo di Parigi di limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei  2°C, entro il 2050 i posti di lavoro nel settore dell’energia potrebbero crescere dagli attuali 18 milioni per arrivare a 26 milioni.

 

Secondo la ricerca, l’84 per cento dei nuovi posti di lavoro sarebbe nel settore delle energie rinnovabili, l’11 per cento in quello dei combustibili fossili e il 5 per cento nel nucleare. Quelli nel settore dei combustibili fossili, in particolare nella parte estrattiva, diminuirebbero molto rapidamente ma sarebbero compensati da un aumento del numero di posti di lavoro nei comparti dell’energia solare ed eolica. Una grossa fetta (pari a 7,7 milioni nel 2050) sarebbe da imputare ai settori dell’eolico e del fotovoltaico.

Come si legge nel report, “la dimensione umana, i temi dell’accesso all’energia, della povertà e anche le implicazioni per il mondo del lavoro sono spesso considerate ancora con un livello di dettaglio insufficiente. Con il nostro studio, abbiamo contribuito a colmare questa lacuna mettendo insieme e utilizzando un grande set di dati, per molti paesi e tecnologie, che potranno essere impiegati anche per altre applicazioni”.

Ma c’è di più. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), se si prendono in considerazione gli impatti positivi dell’azione volta a evitare danni climatici, nel 2050 l’effetto positivo netto sul Pil aumenterebbe fino a quasi il 5% nelle economie sviluppate ed emergenti dei paesi del G20. Mentre per l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), un’azione volta a conseguire gli obiettivi di Parigi creerà 24 milioni di posti di lavoro nella generazione di energia pulita, nei veicoli elettrici e nell’efficienza energetica e porterà alla perdita di circa 6 milioni di posti di lavoro, con un guadagno netto quindi di 18 milioni di posti di lavoro.


Costi e benefici per la salute


Bisogna considerare poi i costi e i benefici per la salute. Sul lungo periodo, i cambiamenti climatici sono considerati la più grande minaccia per la salute di questo secolo e potrebbero venire a costare tra i due e i quattro miliardi di dollari entro il 2030. A livello globale invece, l’inquinamento atmosferico causato per lo più dall’estrazione e combustione delle fonti fossili è considerato la principale minaccia ambientale per la salute delle persone, responsabile di circa 7 milioni di decessi prematuri ogni anno.

Se andiamo a guardare i due principali consumatori di carbone per la produzione energetica a livello europeo, ovvero Polonia e Germania, vediamo come nel 2016 si stimava che le centrali a carbone e lignite polacche avessero comportato 2.596 morti premature e 42.402 giorni con sintomi asmatici nei bambini, con costi sanitari di circa 7,5 miliardi di euro.

Per la Germania invece si stima che la generazione di energia fino al phase out dal carbone (ovvero al 2038) porterebbe a 26.000 morti premature, con perdite che si aggirano intorno ai 73 miliardi di euro. “Molto spesso il legame con il fattore salute è ancora più evidente nelle aree industriali più inquinate, che presentano allo stesso tempo condizioni socio economiche sfavorevoli e lavori sottopagati, legati all’industria del fossile”, sottolinea Colafrancesco.


Italia in transizione


Per quanto riguarda il nostro Paese, sono due le aree interessate dal Just transition fund, ovvero l’area del Sulcis Iglesiente e quella della provincia di Taranto. Il via libera da parte della Commissione europea è arrivato a dicembre 2022, con una dotazione finanziaria che prevede 1.211.280.657 euro, di cui 1.029.588.558 euro di contributo europeo e 181.692.099 euro di contributo nazionale.

L’intera area tarantina è fortemente collegata all’acciaieria ex Ilva, che impiega circa 10mila dipendenti, con ulteriori 10mila legati all’indotto. Nella consultazione pubblica del 2021 della regione Puglia, si indicavano i possibili settori di intervento, tra cui nel campo della rigenerazione e la decontaminazione dei siti, il ripristino del terreno e i progetti di conversione e investimenti nel potenziamento dell’economia circolare, anche mediante la prevenzione e la riduzione dei rifiuti, investimenti produttivi nelle piccole e medie imprese, tra cui le start-up, finalizzati alla diversificazione e alla riconversione economica.

Per quanto riguarda l’area carbonifera del Sulcis, la direzione sembra essere quella di un cambio di direzione del settore estrattivo, che passi dal carbone (la miniera è dismessa già dal 2015) ad altri minerali più richiesti dal mercato, come nichel e litio, fino alla completa riconversione energetica dell’isola.

È recente la delibera della regione Sardegna per la modifica della centrale termoelettrica “Grazia Deledda”, che prevede l’installazione di un sistema di accumulo agli ioni di litio della potenza complessiva di 122 MW. Questo progetto infatti rientra in quello più ampio di Enel Green Power che, nell’asta del Capacity Market 2024 indetta da Terna, si è aggiudicata circa 1.1 GW di capacità contrattuale, che onorerà installando circa 1.6 GW/6.6 GWh di nuova capacità in sistemi di accumulo, la metà di questi installati proprio in Sardegna.

Ma la transizione, come già accennato, è anche una questione sociale, culturale e psicologica, che va a influenzare la vita delle comunità locali. In questo contesto, il progetto Entrances, ENergy TRANsitions from Coal and carbon: Effects on Societies, finanziato con il programma Horizon 2020, tenta di dare una risposta olistica a tutti questi aspetti, e mira a sviluppare una comprensione teorica ed empirica delle questioni trasversali viste finora.

In particolare per il Sulcis, il caso studio conclude che “così come sta prendendo forma in Sardegna, [la transizione] è caratterizzata da un cambiamento verso un sistema energetico più centralizzato e da una centralizzazione del relativo processo decisionale, da una visione debole e opaca, e da una mancanza di capacità di rispondere ai bisogni sociali e territoriali”. Nonostante gli investimenti delle società coinvolte, ad oggi, “la transizione verso l’energia pulita non sta producendo una nuova visione per il territorio del Sulcis, ma piuttosto sta producendo un effetto di divisione sulla comunità locale, e sta ulteriormente diminuendo l’autonomia del territorio”. Ciononostante, la ricerca ha anche mostrato come “il territorio del Sulcis sia dotato anche di una società civile attiva, di una propensione all’innovazione e di un ricco patrimonio culturale e naturale, le cui potenzialità di fare territorio sono ancora inespresse”.

Due facce della stessa medaglia che ci mettono di fronte sì alle opportunità della transizione ecologica, ma anche agli enormi rischi che si corrono, che rischiano di lacerare ancora di più il Paese. Senza dimenticare, come spiega Colafrancesco che “ci troviamo di fronte a distorsioni occupazionali che sono evidenti da decenni. Per questo dovremmo essere pronti a fare un salto verso qualcosa che può creare opportunità diffuse e ricucire quelle disuguaglianze che affliggono l’Italia da molto tempo”.


Quale visione


Già nel 2015, l’International labour organization (Ilo) ha adottato una serie di linee guida basate sui suggerimenti di governi, imprese e sindacati. Come si legge nel documento “Il cambiamento climatico e la transizione giusta. Guida per l’investitore” redatto dalla London School of Economics, queste linee guida “raccomandano azioni per prevedere la necessità di sviluppare competenze, valutare i rischi per la salute e la sicurezza, garantire la previdenza sociale durante la transizione (come l’assistenza sanitaria e le pensioni dei lavoratori), sviluppare standard internazionali del lavoro e promuovere attivamente il dialogo sociale”.

A preoccupare gli analisti però non è tanto la mancanza di investimenti, quanto una visione che sia per quanto possibile a lungo termine – mentre i fondi per la giusta transizione prevedono un orizzonte temporale troppo breve (2021-2027) – perché questa possa permeare capillarmente intere aree e fasce della popolazione. Ad esempio, tutta la riconversione dell’area dell’acciaio della Ruhr tedesca ha impiegato più di 60 anni per una transizione completa. “Stiamo parlando di cambiamenti strutturali ed è per questo che il Transition fund deve essere integrato in una visione di lungo periodo, altrimenti non sarebbe una transizione completa”, continua Colafrancesco.

La giusta transizione ha una storia lunga, dagli Stati Uniti al Sudafrica, passando per la Germania e il nostro Paese, almeno fino dal dopoguerra. “Le criticità le conosciamo bene”, conclude Colafrancesco. “Dobbiamo quindi guardare al lungo periodo, prestare attenzione alla governance per distribuire responsabilità e compiti”. Non si tratta di un “processo che si può fare senza tenere conto delle specificità locali, con un approccio molto più attivo e partecipato verso tutti i portatori di interesse, per avviare il percorso di riqualificazione che non sia solo energetico ma anche sociale”. Il tutto nell’ottica di creare un futuro più prospero per tutta la società.

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