Introduzione

Le società europee sono consapevoli dell’urgenza del tema climatico e, al netto delle difficoltà nella loro realizzazione, sembra emergere una crescente domanda politica orientata allo sviluppo di modelli di sviluppo alternativi. Tuttavia, perché la transizione ecologica abbia luogo, è necessario uno step ulteriore, volto al coinvolgimento della popolazione nella co-progettazione e nell’attuazione di politiche green, seguendo i principi dell’innovazione democratica.

La governance è infatti un tema chiave nel processo di transizione ecologica. Il “Green Deal” e il “Fit for 55” hanno definito obiettivi ambiziosi in termini di politica ambientale, ma il loro raggiungimento richiede un’ampia mobilitazione e lo sforzo di tutte le parti interessate: dai cittadini alle istituzioni politiche, dalle amministrazioni alla società civile.

Negli anni sono stati sviluppati importanti strumenti di governance multilivello, che garantiscono il coinvolgimento, nel processo decisionale, di tutti i livelli politici. Tuttavia, perché la transizione abbia luogo, e non si presenti come un processo di natura tecnocratica, occorre un passo in avanti in termini di attivazione democratica e partecipazione politica.

Quindi, al di là delle questioni politico-amministrative e tecniche, l’obiettivo dev’essere quello di promuovere un nuovo modello di partecipazione democratica, più aperto, più inclusivo e più consapevole della marginalità sociale. Per rendere la transizione ecologica una transizione giusta, è necessario progettare i meccanismi decisionali in modo inclusivo e partecipativo. L’obiettivo è duplice: da un lato, la cittadinanza democratica dovrebbe essere rafforzata, dall’altro, la definizione delle politiche dovrebbe essere aperta verso pratiche più orizzontali.


Domande


Partendo da questa visione e da un esempio pratico, chiediamo:

  • La democrazia diretta e le pratiche partecipative sono un modo efficace per affrontare la crisi di legittimità delle democrazie liberali contemporanee?
  • In che modo la mancanza di fiducia nella politica influisce sulla partecipazione a essa?
  • Il coinvolgimento dei cittadini può rappresentare una risposta ai conflitti politici?
  • Quale meccanismo dovrebbe essere messo in atto per rafforzare l’attuazione legislativa dei risultati delle pratiche partecipative?
  • Come garantire un ampio coinvolgimento di tutta la cittadinanza?
  • In che modo i fattori contestuali e le posizioni socio-strutturali influenzano la partecipazione politica alla democrazia diretta?
  • Come affrontarli?
  • Si dovrebbe promuovere una nuova cittadinanza eco-sociale?

In breve, l’obiettivo del workshop era quello di rispondere a queste domande. Al workshop hanno partecipato:

Fatima Alves, UC Coimbra
Cecilia Biancalana, Università degli studi di Torino
Marino Bonaiuto, Università di Roma – La Sapienza
Patrizia Catellani, Università Cattolica di Milano (come discussant)
Maarten de Groot, The good Lobby
Edoardo Dellarole, Head of Electrification Cluster presso ENI
Lise Deshautel, consulente indipendente sulle politiche climatiche (come relatore principale)
Riccardo Ladini, Università degli studi di Milano
Thomas Pasini, responsabile R&D biocarburanti e Next Generation Downstream presso ENI
Maurizio Pioletti, Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra (come discussant)
Carmela Sarli, Head Carbon Storage and Valorization presso ENI
Ivano Scotti, Università degli studi di Napoli
Cosimo Tansini, European Environmental Bureau
Diogo Guedes Vidal, UC Coimbra
Iacopo Zetti, Università di Firenze


Discussione


L’intervento di Lise Deshautel, che approfondisce l’esperienza del CCC e del KNOCA, ha messo in luce i quattro temi chiave del dibattito sulla partecipazione democratica: i) l’ambiente socio-politico da cui provengono tali iniziative, ossia, la crisi di legittimità delle democrazie liberali; ii) la questione dell’attuazione e dell’impatto delle iniziative di democrazia diretta, che non sempre sono incanalate in politiche concrete; iii) le difficoltà nel coinvolgere i cittadini e il fatto che la comunicazione legata alle pratiche partecipative non è sempre efficiente; iv) la problematizzazione della posizione socio-strutturale dei partecipanti, ossia, il fatto che le persone più ricche e più istruite sono più inclini alla partecipazione politica alle pratiche deliberative.


Discussant


A fronte di questo, i due discussant hanno fatto le loro osservazioni.

Il primo intervento è stato di Patrizia Catellani, Professore Ordinario di psicologia sociale presso l’Università Cattolica di Milano. La sua attenzione si è concentrata principalmente sul tema della comunicazione. Di conseguenza, ha definito tre questioni necessarie per costruire lo spazio politico per la democrazia diretta e le pratiche partecipative: i) la comunicazione, che si concretizza nella necessità di un coinvolgimento più inclusivo e meno allarmistico delle persone in una questione sempre più saliente come la transizione ecologica; ii) la sfera economica individuale, sottolineando il punto secondo cui le cattive condizioni economiche individuali (come la povertà o la deprivazione materiale) possono rappresentare un vincolo significativo nel consentire la partecipazione; e iii) la necessità di costruire interazioni fiduciose che responsabilizzino le persone e valorizzino le loro identità.

Il secondo intervento è stato invece realizzato da Maurizio Pioletti, del Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra, che è coinvolto in PHOENIX, un progetto di Horizon 2020 sulla partecipazione democratica attorno al Green Deal europeo. Considerando 4 settori, che sono la transizione energetica, l’alimentazione sostenibile, l’economia circolare e la prevenzione degli incendi boschivi, l’idea alla base di PHOENIX è quella di costruire e testare diversi strumenti di democrazia diretta, come: bilancio partecipativo, dibattito pubblico, assemblee di cittadini, consigli e forum/conferenze.


Discussione


In seguito, ha avuto luogo la discussione.

Maarten de Groot, di The Good Lobby, ha sottolineato che il sistema socio-economico contemporaneo ha dimostrato di essere dannoso per l’ambiente e, in generale, anche per il benessere delle persone che vivono sul pianeta. In particolare, l’idea emersa è la necessità di riformulare l’approccio dell’accumulazione capitalistica, intesa come produttiva di dominio e sfruttamento. Di conseguenza, dovrebbe essere sviluppato un approccio antirazzista, anti-classista, anti-sessista e anti-abilista verso la deliberazione, al fine di elaborare processi che possano davvero fare la differenza.

Diogo Guedes Vidal, del CES UC, ha seguito questa linea, evidenziando, in linea con le prime evidenze emerse dal progetto PHOENIX, la questione del rapporto tra la sfera umana e quella non umana. Il rapporto tra uomo e ambiente va considerato come una costruzione socioculturale: l’unico modo per affrontare la crisi socio-ecologica è decostruire il modo in cui si inquadra l’interdipendenza tra natura e attività umane. Di conseguenza, la critica è sull’approccio cognitivo dominante, basato su una comprensione strumentale del rapporto tra umani e non umani. Quindi, qui l’idea è di sostenere una nuova partecipazione politica non antropocentrica, che sia plurale, riflessiva, transnazionale, ecologica e dinamica, perciò in grado di consentire processi partecipativi enfatici e completi.

In dialogo con quelle idee, un’altra prospettiva che è emersa dal dibattito ha avuto a che fare con l’esempio pratico di pianificazione urbana, portato avanti da Iacopo Zetti, dell’Università di Firenze. Questi processi, che tipicamente comportano la partecipazione obbligatoria dei cittadini, sono definiti dalla loro complessità (che è comune anche alla trasformazione legata alla transizione ecologica) e dalla non commercializzabilità dello spazio, come nel caso dell’ambiente: come detto durante il workshop, il territorio non è solo un pezzo di terra, ma è fonte di identità e significato. Considerando il secondo punto, l’idea di compensazione è inadatta per la trasformazione dello spazio, a causa della sua non riproducibilità. Quindi, tenendo conto di questi problemi, Zetti suggerisce che le pratiche partecipative si verifichino come segue: tali processi dovrebbero essere aperti, e adeguatamente co-progettati e insurrezionali, ossia, trasformativi: antagonista trasformato in comportamento progettuale, per produrre, coinvolgendo tutte le parti, soluzioni auspicabili per la crisi socio-ecologica.

Cecilia Biancalana, dell’Università di Torino, si è concentrata sulle determinanti della partecipazione alle pratiche di democrazia diretta. Cercando di rispondere alla domanda “perché le persone non partecipano”, sono emerse principalmente tre risposte: i) perché non possono; ii) perché non vogliono; iii) perché non viene chiesto loro. Inoltre, il suo intervento ha approfondito diverse questioni relative alle transizioni ecologiche. In particolare ha evidenziato come i partecipanti alle iniziative di democrazia diretta siano fondamentalmente quelli dotati di condizioni socio-culturali più elevate. Questo fenomeno rafforza la polarizzazione dei costi sociali della transizione, che colpiscono tipicamente più le periferie dove le marginalità sociali sono già presenti. Infatti, la tutela dell’ambiente è percepita come una preoccupazione post-materialistica, che interessa le persone che non soffrono di gravi deprivazioni materiali. Il paradosso qui è che, oltre ai costi della transizione ecologica, le esternalità negative del cambiamento climatico colpiscono in genere i più poveri, in prospettiva sia transnazionale sia intranazionale. Un’altra questione importante è la cosiddetta “pseudo-partecipazione”, che si verifica quando i risultati di un determinato processo sono già decisi dall’alto e la partecipazione ha il solo scopo di creare un senso di legame tra le persone coinvolte. Strettamente connessa a questa è la questione dell’inganno. Fondamentalmente, qui il punto è che l’inquadramento concettuale delle questioni ambientali e politiche non dovrebbe essere usato per ingannare i cittadini. Infatti, come per il greenwashing, l’inquadramento può mostrare il contenuto ecosostenibile di una determinata politica, o prodotto, o pratica, nascondendo invece alcune esternalità negative, eventualmente dannose per l’ambiente.

 

Riccardo Ladini, dell’Università degli Studi di Milano, considera invece l’importanza delle istituzioni nella costruzione della fiducia e nella creazione di un legame sociale per il sistema di governo di riferimento. Partendo dalla considerazione del rinnovato ruolo delle istituzioni europee nella promozione della solidarietà tra i paesi dell’UE durante e dopo la pandemia, ha parallelamente considerato come ciò potrebbe funzionare per le pratiche di partecipazione democratica. Inoltre, ha spinto la sua riflessione nel considerare come, parlando di questioni ambientali ed ecologiche, le “generazioni future” dovrebbero avere voce in capitolo: di conseguenza, ha proposto di considerare la possibilità di attuare questo tipo di iniziative.

L’ultimo tema è la comunicazione. Come nell’intervento di Patrizia Catellani, la comunicazione è considerata una chiave di partecipazione, in quanto uno dei motivi principali per cui le persone non partecipano ai processi di democrazia diretta è il fatto che, semplicemente, non viene chiesto loro. Quindi, considera come la comunicazione dovrebbe essere più inclusiva ed empatica, in grado di costruire interazioni fiduciose, in cui le identità individuali vengono valorizzate. Il professor Marino Bonaiuto, dell’Università di Roma – La Sapienza, invece, si concentra maggiormente sulla comunicazione riguardo all’accettazione sociale, considerata particolarmente rilevante per le innovazioni tecnologiche verdi. Infatti, l’accettazione sociale è fondamentale con riferimento alla diffusione delle nuove tecnologie: di conseguenza, sia l’educazione sia la comunicazione pubblica sono fondamentali per orientare positivamente le persone verso le nuove tecnologie e focalizzarle su nuove tecnologie volte a ridurre i costi ambientali dell’accumulazione capitalistica.


Conclusioni, suggerimenti politici, buone pratiche


Riassumendo, durante il workshop sono emerse diverse questioni.

In primo luogo, la questione del conflitto è una priorità nell’ambito della partecipazione democratica. Questa dovrebbe infatti funzionare come strumenti per risolvere i conflitti sociali, prevenirli o disinnescarli. L’esempio del CCC è interessante in questi termini. Il legame con l’esperienza dei “Gilet Gialli” e con specifici conflitti eco-sociali nella società francese era chiaro in quel caso. Di conseguenza, il CCC ha in qualche modo partecipato alla ricomposizione di quella frattura sociale che ha avuto origine nel 2018-2019.

In seguito, l’attuazione delle esperienze partecipative dovrebbe essere affrontata con particolare attenzione e, in questi termini, l’esperienza del CCC è stata ancora una volta molto paradigmatica. Da un lato, c’è la necessità di istituzioni formali e vincolanti incaricate dell’attuazione delle politiche che hanno origine dalle assemblee di cittadinanza e, più in generale, di canalizzare le necessità emerse dal “livello di base”. Dall’altro lato, invece, l’impatto di queste esperienze è più ampio di quello che potrebbero avere a livello meramente legislativo. Come ha affermato Lise, l’impatto più ampio sta riformulando il discorso dell’opinione pubblica sui cambiamenti climatici e sulle politiche climatiche. Questi esperimenti potrebbero portarci dal non preoccuparci affatto di questi problemi a una sensibilità comune e diffusa.

In seguito, la terza questione è la comunicazione: il modo in cui inquadriamo i problemi è fondamentale per rendere efficaci le pratiche di partecipazione democratica sia per la loro rilevanza politica, date le possibilità di trasformazione a esse associate, ma anche affinché le persone costruiscano confini e attaccamento emotivo alle questioni climatiche.

Sono importanti anche i contesti: è fondamentale avere un approccio sistemico, ma anche riconoscere le specificità dei territori e le differenze nella sfera economico-produttiva. Chi è più colpito e più vulnerabile in termini di condizioni socio-economiche, ma anche, in termini di emarginazione e intersezionalità? E quindi, come teniamo conto del contesto nella progettazione di esperienze partecipative.

Strettamente connessa a quest’ultima questione è la posizione socio-strutturale delle persone coinvolte nella partecipazione democratica. Dovremmo essere consapevoli che quelle esperienze sono in qualche modo progettate per le persone privilegiate. Dovremmo quindi evitare che la partecipazione sia un privilegio. Ci sono differenti strategie possibili: una prima idea potrebbe essere legata alla promozione di maggiori investimenti in pratiche partecipative, al fine di garantire una retribuzione per coloro che sono coinvolti. Tuttavia, questo problema è difficile da affrontare. L’esperienza del CCC può darci alcuni spunti utili, ma potrebbe non essere sufficiente.

Un altro tema chiave è la cittadinanza, un concetto da riformulare e ripensare in questa nuova era. Un aspetto che non è stato trattato in modo specifico durante l’incontro del 30 novembre è il dibattito sulla creazione di un contratto eco-sociale, ossia, un nuovo contratto sociale in cui ridefinire cosa sia la cittadinanza in relazione all’ecologia e quale istituzione dovrebbe essere costruita di conseguenza.

Infine, la questione della mancanza di fiducia nella politica è emersa come tema centrale se parliamo di partecipazione politica. I sistemi democratici sono in crisi di legittimità da diversi anni, come dimostra continuamente il tasso sempre più basso di affluenza alle urne. Questa crisi, e la relativa mancanza di fiducia politica, è un enorme ostacolo per la partecipazione politica, sia diretta che rappresentativa. Ma questo punto critico è anche il luogo in cui le pratiche dirette e rappresentative possono incontrarsi: da un lato, la democrazia diretta può risolvere alcune delle contraddizioni dell’attuale sistema politico; dall’altro, invece, i sistemi rappresentativi dovrebbero racchiudere alcuni degli strumenti che emergono dalle pratiche partecipative per rafforzare il legame dei rappresentanti con il “livello di base”.

Per quanto riguarda le buone pratiche, nel territorio europeo sono in corso diverse esperienze. Il caso del CCC è il primo esempio che è stato portato al workshop, ed è particolarmente rilevante per il contesto politico in cui si è svolto, caratterizzato dalla stagione conflittuale dei Gillet Jaune. Il caso del CCC è stato quindi in grado di promuovere un’importante mobilitazione dei cittadini e di trasferire le sue rivendicazioni alla politica nazionale. Un’altra esperienza rilevante è sicuramente il progetto PHOENIX, un progetto di Horizon 2020 volto ad aumentare la forza e l’efficienza delle pratiche di innovazione democratica, intese come quelle pratiche deliberative e partecipative volte ad affrontare le questioni relative ai percorsi del Green Deal europeo. Inoltre, vale la pena menzionare la costante diffusione di comunità energetiche, in cui la produzione e il consumo di elettricità sono decentralizzati a livello comunitario; le comunità energetiche promuovono una nuova comprensione della cittadinanza energetica. In questo momento, un esempio molto rilevante è rappresentato, oltre a quelli presentati nell’inchiesta giornalistica, dal progetto GECO, nel quartiere Pilastro a Bologna. Inoltre, negli ultimi anni sono nate assemblee sul clima in tutta Europa, dalla Francia alla Spagna, dal Regno Unito alla Danimarca. A tal fine, è particolarmente rilevante il lavoro del KNOCA nel coordinare e diffondere le migliori pratiche e i comportamenti organizzativi più fruttuosi, considerando la crescente importanza di tali iniziative.

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