Introduzione

Il rapporto tra competenze e transizione ecologica riguarda due questioni principali: l’istruzione e le politiche del lavoro, intese sia come formazione post-istruzione lungo tutto l’arco della vita sia come servizi per il ri-avviamento al lavoro di chi si trova in condizioni di disoccupazione.

La transizione ecologica avrà un impatto sui settori centrali delle economie industriali, come quelli ad alta intensità energetica o hard-to-abate (acciaio, cemento, petrolchimico, energia, mobilità).

Di conseguenza, dato l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 e di eliminare il carbone – e in generale le fonti fossili – come materia prima nei settori industriali ed energetici, si prevede che si verifichino esuberi nei settori che fanno maggiore affidamento su questo materiale. Le relazioni industriali avranno un ruolo chiave nell’affrontare questi problemi: in particolare i sindacati si trovano di fronte a una sfida epocale, dovuta alla necessità emergente di coniugare nelle loro analisi e nelle loro strategie sia gli obiettivi sociali che quelli ambientali.

In questo contesto, le competenze e la formazione sono fondamentali per definire la priorità dell’agenda politica: è necessario lavorare affinché chi è occupato in questi settori possa adattarsi al nuovo scenario tecnologico-produttivo; e ciò in particolare considerando le asimmetrie delle transizioni gemelle (green e digital), che si prevede porteranno importanti vantaggi al centro, mentre i costi si concentreranno nelle periferie, in quei territori economicamente dipendenti dall’industria primaria. Queste periferie devono essere l’obiettivo della giusta transizione, affinché si configuri realmente come un’opportunità, in zone tipicamente sacrificate a produzioni degradanti dal punto di vista sanitario e ambientale.

In questo scenario, oltre alle politiche di formazione e di attivazione, sarà necessario progettare strumenti complessivi di politiche passive del lavoro: la complessità del processo di trasformazione creerà probabilmente. Alcuni strumenti finanziari sono già stati adottati (il Fondo per la transizione giusta ne è un esempio), ma dovrebbero essere integrati con una gamma più ampia di politiche, per garantire l’equità dei processi. Due priorità dovrebbero essere le politiche di istruzione e formazione, nonché le politiche attive del mercato del lavoro (ALMP).

Domande

Alla luce di quanto sopra chiediamo:

  • Quali sono le competenze chiave per la transizione ecologica?
  • Come strutturare queste nuove competenze?
  • Quale ruolo possono svolgere i sindacati e le imprese nel promuovere una transizione socialmente giusta?
  • Come dovrebbero essere considerate le relazioni industriali e i corporativismi nel contesto di una transizione verde?
  • Quale potrebbe essere la prospettiva del sistema educativo?
  • Attraverso qualiALMP sarà più efficace lo sviluppo, l’attivazione e l’aggiornamento delle competenze?
  • In che modo la pubblica amministrazione dovrebbe adattarsi al nuovo contesto?
  • In quali condizioni le competenze e le conoscenze dovrebbero rappresentare strumenti di inclusione?
  • Quali sono le parti pertinenti? Quali sono le loro responsabilità?

 


Partecipanti


Bela Galgoczi, Istituto sindacale europeo
Massimiliano Lepratti, Està
Lidia Greco, Università degli studi di Bari
Paolo Tomassetti, Università degli studi di Milano
Francesco Bagnardi, Università degli studi di Milano
Maristella Cacciapaglia, Università degli studi di Bari
Dario Guarascio, Università Sapienza di Roma
Elena Jachia, Fondazione Cariplo
Marina Da Forno, ANPAL Servizi
Giovanni Verla FIOM
Simona Fabiani, CGIL
Andrea Casamenti, SOLIDAR
Renata Semenza, Università degli Studi di Milano


Discussione


Intervento di apertura

Il keynote speech è stato tenuto da Bela Galgoczi, senior researcher presso l’European Trade Union Institute, e ha affrontato principalmente le diverse dimensioni dell’impatto sul lavoro della transizione verde.

In primo luogo, è stata fornita una panoramica delle disuguaglianze. Al fine di prevenire la disuguaglianza finale, ossia lo scenario dell’Arca di Noè in una catastrofe climatica, sono necessarie politiche per affrontare le questioni sociali ed economiche che emergerebbero a causa della transizione verde. In linea con questo, il rischio è che le politiche climatiche, ossia quelle politiche volte a ridurre l’impatto antropico sulla biosfera, siano percepite come più dannose del cambiamento climatico stesso. In questo contesto, emerge come gli approcci della Just Transition siano il modo, forse l’unico, per promuovere un cambiamento di paradigma sia nei modelli di consumo che di produzione.

Queste considerazioni generali si concretizzano in modo diverso nei mercati del lavoro. La prima questione riguarda l’occupazione e le competenze. La transizione verde probabilmente produrrà ingenti perdite di posti di lavoro in quelle attività basate sul carbonio radicate nei settori brown, mentre probabilmente aumenterà, invece, l’occupazione nei settori green, ossia, quelle attività economiche per lo più coinvolte nella transizione verso una società a zero emissioni nette di carbonio. Due esempi tipici sono i settori energetico e automobilistico, che dovrebbero essere i più colpiti dalla decarbonizzazione. In particolare quest’ultimo settore, che copre oltre il 5% della forza lavoro totale europea, subirà un cambiamento tecnologico epocale, dovuto all’elettrificazione dei motori. L’effetto di questa transizione, secondo le stime, non si vedrà a livello aggregato, ma avrà invece un impatto sulla qualità del lavoro, poiché, secondo la presentazione di apertura “nessuno dei 14 milioni di posti di lavoro [del settore automobilistico, nda] rimarrà invariato”.

Avvicinandosi invece al concetto di Just Transition (JT), l’idea è che la transizione verso un’economia a zero emissioni nette di carbonio dovrebbe rientrare nei limiti del pianeta (planetary boundaries), in un modo in cui la condivisione degli oneri sia equa. Quindi, dal punto di vista normativo, la decarbonizzazione è strettamente correlata alla giustizia climatica globale, tenendo conto pertanto delle disuguaglianze esistenti e delle fasi di sviluppo. Pertanto, la JT dovrebbe essere intesa come una giusta condivisione degli oneri sulla strada per il “Net Zero”. L’Unione Europea interpreta invece la JT in relazione: i) all’effetto distributivo delle politiche climatiche; ii) alla transizione del mercato del lavoro; iii) alla ristrutturazione regionale. Tuttavia, una più ampia comprensione delle politiche climatiche esula dall’ambito dell’azione dell’UE, poiché sono considerati solo quei rischi legati alla transizione che interessano i paesi ricchi.

Da ultimo, è stato sollevato il tema del welfare state. Si avanza quindi l’auspicabilità di una trasformazione eco-sociale del welfare state, anche se ne vengono riconosciute le preoccupazioni sulla fattibilità, a causa di vincoli socio-economici e istituzionali. Infatti, per rendere efficace la JT, il processo dovrebbe necessariamente essere incorporato in una più ampia riorganizzazione della produzione e della ridistribuzione. In tal modo, sarà necessario che il welfare state, così come gli obiettivi sociali ed economici, includano gli obiettivi ecologici.

Discussione

Renata Semenza, professore associato presso l’Università degli Studi di Milano, ha sottolineato la discrepanza tra l’astrazione della transizione ecologica e la concretezza del lavoro. Nel fare ciò, ha enfatizzato la necessità di chiarire concettualmente la questione dei “lavori verdi”, cercando quindi di rispondere alla domanda: “cos’è esattamente un lavoro verde (green job)?”; se, infatti, il lavoro associato alla transizione viene genericamente definito “buona occupazione”, non è chiaro come tale affermazione si riferisca ai sistemi di formazione e alla domanda settoriale di lavoro da parte delle aziende. La questione principale è il fatto che la definizione di “lavori verdi” è normativa e funziona come una sorta di equivalente della “Just Transition“. Si teme, infatti, che la “retorica dei lavori verdi” possa mettere in ombra gli effetti reali della transizione verde nei settori energetico e industriale, rischiando di concretizzarsi in un’ondata di licenziamenti, in particolare per i gruppi sociali a basso reddito.

Elena Jachia, direttrice del settore ambientale di Fondazione Cariplo, ha proposto alcune riflessioni sul tema dei green job e delle competenze green. In particolare, l’attenzione si è concentrata sull’istruzione e sul ruolo delle scuole nel promuovere e anticipare la formazione di tali competenze, per consentire un migliore rendimento dei mercati del lavoro. È stato presentato un caso relativo a un progetto realizzato in Lombardia. Erano in gioco due percorsi principali: l’imprenditorialità verde e l’orientamento verso i green jobs. In questo contesto, gli obiettivi sono da una parte la promozione della mentalità imprenditoriale a livello scolastico e dall’altra, invece, la diffusione di informazioni e suggerimenti relativi alle professioni che saranno probabilmente molto richieste nel mercato del lavoro del futuro, in cui i lavori verdi e digitali acquisiranno sempre più rilevanza.


Maristella Cacciapaglia, ricercatrice dell’Università di Milano, ha invece sottolineato le possibili criticità legate alla conversione economica e lavorativa. Con una formula efficacie, ha sintetizzato: “Non è facile trasformare un operaio metalmeccanico in un infermiere”. Seguendo questa linea, un’ipotetica transizione verde dovrebbe pertanto essere consapevole delle aspirazioni, delle idee e della prospettiva di coloro che subiranno una dismissione del lavoro. Dal punto di vista della partecipazione e della giustizia sociale, la riqualificazione e il perfezionamento delle competenze non dovrebbero essere l’unica strategia adottata. In linea con ciò, dovrebbe essere considerata anche l’analisi contestuale della situazione del mercato del lavoro, in quanto le politiche attive del mercato del lavoro hanno un limite: in quell’area marginale definita dal mercato del lavoro ostile, in cui le opportunità per i lavoratori altamente qualificati sono poche, quelle per i lavoratori scarsamente qualificati sono sostanzialmente nulle.

Marina Da Forno, Head of Partnerships and International Relations in ANPAL, ha portato il punto di vista della più importante istituzione pubblica nel campo delle ALMP. Ha definito la principale sfida che istituzioni come ANPAL devono affrontare quotidianamente: ridurre il rischio di esclusione dal mercato del lavoro per i cittadini più vulnerabili. L’attenzione, quindi, si concentra sia sulla formazione che sulle attività di collocamento promosse da ANPAL, come i percorsi di riqualificazione e perfezionamento e la creazione di tassonomie legate al lavoro. È stato portato all’attenzione il caso dell’Emilia.Romagna. Qui è in corso un interessante progetto pilota, finalizzato alla realizzazione di una “tassonomia verde” in tre settori: settore energetico e della tecnologia verde, settore agroalimentare e il settore dell’edilizia e delle costruzioni. Tuttavia, questo tentativo, sebbene innovativo, è limitato nella sua portata. La tassonomia è infatti per lo più basata sui dati e non tiene conto delle questioni teoriche e analitiche legate alla mancanza di una definizione comune di green jobs e occupazione verde.

Andrea Casamenti ha parlato a nome di SOLIDAR di cui è Just Transition Policy Officer. SOLIDAR è una rete di organizzazioni della società civile come sindacati, associazioni di cittadini, attivisti che nell’ultimo periodo ha intensificato il lavoro sulla dimensione sociale della transizione ecologica. A partire da questo, SOLIADAR sta portando avanti progetti legati all’educazione e all’istruzione. In un report pubblicato di recente, l’organizzazione ha cercato di comprendere il legame tra competenze verdi e istruzione, sia formale che informale. L’obiettivo qui non è solo quello di esaminare le competenze e le questioni di formazione, ma piuttosto di concentrarsi sull’educazione dei cittadini e pertanto spingere per l’adozione di stili di vita più sostenibili.

Giovanni Verla, segretario provinciale della FIOM di Ferrara, ha invece parlato delle iniziative concrete che si stanno svolgendo nel suo territorio di riferimento sulla transizione verde. Ha affrontato principalmente due temi: il Patto per il Clima e per il Lavoro in Emilia-Romagna, e gli impatti della transizione verde in due settori chiave come quello chimico e quello automobilistico. A proposito del primo, nell’ambito di tale patto, sono state avanzate dalla FIOM diverse proposte per affrontare la crisi industriale dell’impianto chimico di Ferrara, tra cui, in un’ottica di economia circolare, la realizzazione di una bioraffineria che sfrutti i rifiuti agricoli per produrre biocarburanti. Tuttavia, tali proposte non sono state considerate dalla politica né dalle aziende. A proposito del secondo, invece, gli impatti sociali della transizione verde si configurano come molto onerosi, e in particolare nei settori hard-to-abate, o brown. Contro questa considerazione preliminare, tuttavia, il rappresentante di FIOM ha sottolineato la mancanza di piani industriali ed energetici che garantiscano la possibilità di avere diversi strumenti politici per affrontare le complesse sfide della transizione.

 

L’intervento di Dario Guarascio, professore di economia politica alla Sapienza – Università di Roma, ha seguito la stessa linea. Ha affrontato spesso trascurata, ossia il crescente impoverimento del settore produttivo italiano, che ha avuto tra le sue cause la carenza di politiche industriali. Questa carenza ha portato anche l’economia italiana a essere in ritardo rispetto a diversi settori tecnologici, e questo, in particolare, ci si aspetta che esponga l’intero settore produttivo agli effetti asimmetrici della transizione. Infatti, poiché la transizione verde (e digitale) è guidata dalla tecnologia, è probabile che i paesi e le economie che sono al centro dello sviluppo tecnologico ne beneficino maggiormente, mentre invece paesi come l’Italia, che è in una condizione di stagnazione economica dagli anni ’90, dovrebbero essere più esposti alle sue esternalità negative, come l’erosione del mercato e, conseguentemente, la perdita di posti di lavoro. A questo proposito, tra gli altri fattori, un ruolo chiave è stato svolto dalla precarizzazione del mercato del lavoro, poiché è diventato difficile attirare competenze di alto livello – necessarie per la transizione ecologica e digitale – con salari bassi e scarse condizioni di lavoro.

L’intervento di Paolo Tomassetti, ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano, è stato invece mirato a inquadrare il contesto generale. Ha portato, infatti, una riflessione sulla necessità di “decolonizzare” la transizione, e in particolare, con riferimento al rapporto tra “green jobs” nel Nord globale e sfruttamento delle risorse nel Sud globale. Ha sottolineato l’esempio dell’industria automobilistica e nucleare, che sono valutati come due settori chiave della transizione verde, con l’obiettivo di analizzare le loro catene del valore globali. Riguardo al primo, se le auto elettriche probabilmente costituiranno una “pedina” importante della transizione verde, la loro catena del valore è tutt’altro che verde, poiché l’estrazione del litio, ad esempio, comporta devastazioni ambientali e sociali, nelle comunità  che si trovano a vivere in quei territori ricchi di tale materia prima. Lo stesso vale per l’industria nucleare: apparentemente è neutrale in termini di CO2, ma se guardiamo alla catena di approvvigionamento a monte, sorgono importanti problemi socio-ambientali nel luogo in cui viene estratto l’uranio. Inoltre, è importante decostruire la dicotomia tra combustibili rinnovabili e fossili, poiché molte energie rinnovabili si basano sul fossile. Di conseguenza, la distinzione più accurata non è tra energie rinnovabili e fossili, ma piuttosto tra modello di base comunitario e modelli estrattivi. Infine, è stato affermato che il nucleo della transizione sarebbe il passaggio da modelli estrattivi a modelli comunitari, che non sono progettati per il profitto e pertanto contribuiscono veramente al benessere delle persone e sono sostenibili dal punto di vista ambientale e climatico.

 

Conclusioni

Dalla discussione sono emerse diverse posizioni. In primo luogo, ciò che è necessario per una Just Transition non è chiaramente una gestione tecnocratica di una transizione economica all’interno dei sistemi di accumulazione del capitale. Invece, a causa della gravità della crisi socio-ecologica, la portata della transizione dovrebbe essere ampliata e approfondita. Di conseguenza, la necessità è quella di guidare e spingere per un cambiamento il più ampio possibile, e in particolare nelle società occidentali benestanti, che sono, e storicamente sono state, i principali contributori ai danni ambientali, ai cambiamenti climatici e, in definitiva, all’alterazione della biosfera.

Partendo da questo punto di vista globale, è fondamentale considerare il divario Nord/Sud per affrontare la decarbonizzazione dell’intera catena del valore globale e renderla giusta. Non ha senso avere auto elettriche a basse emissioni che circolano nelle capitali europee se poi si distruggono i territori in cui sono concentrate le miniere di litio.

Il terzo punto, che sarà affrontato anche nel terzo workshop sul welfare state eco-sociale, riguarda invece la definizione dei rischi che il cambiamento climatico e le politiche climatiche genererebbero, e che probabilmente interesseranno tutti, in ogni parte del mondo. Per quanto riguarda i green jobs, inoltre, la riflessione va verso il riconoscimento che quei tipi di lavori non dovrebbero essere considerati dicotomici rispetto ai lavori brown, ma, piuttosto, l’intento politico dev’essere favorire la sinergia tra quelle attività economiche che inquinano di più e il loro equivalente verde. La questione chiave sarà quindi il riconoscimento e l’attivazione delle competenze che sono maggiormente necessarie nel processo di transizione, considerandole come intersettoriali.

Infine, è emersa una posizione sul ruolo delle parti rilevanti nella transizione. Con particolare riferimento ai sindacati, per la loro capacità di mobilitazione e di impostazione dell’agenda, essi dovrebbero essere in prima linea nel guidare la transizione, andando oltre i loro interessi strutturali – e corporativi – e considerando invece la società in senso ampio, cercando di stabilire una giustizia intergenerazionale e climatica, promuovendo un cambiamento negli stili di vita e, in ultima analisi, riconsiderando il rapporto tra umani e non umani.

 

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