Università di Milano Bicocca

“Una lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra di essere tornate alle code per l’acqua, per i generi razionati”. Così la giornalista Anna Garofalo descriveva l’emozione del 2 giugno 1946, la prima volta delle donne al voto nazionale.

“Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomini e donne hanno un tono diverso, da pari”.

La bellezza del 2 giugno è in quella foto in cui un volto di giovane donna sbuca dalla prima pagina del “Corriere della Sera” che titola “È nata la Repubblica italiana”. È donna, la Repubblica, come lo fu quella francese nelle vesti della Marianne. Ma ora non si tratta di allegorie tradizionali, perché il suffragio universale è stato appena conquistato, dopo una battaglia durata oltre mezzo secolo.

Ed è forse da qui, da quelle nuove conversazioni tra donne e uomini in tono “da pari” che si può partire per cogliere il tratto di discontinuità che questa data è chiamata a celebrare. Perché il 2 giugno non è una festa della “nazione” o della “patria”, o della patria identificata con lo Stato-nazione unitario, come fu intesa nella pedagogia civico-nazionale della presidenza Ciampi, e come oggi è ripresa nel discorso nazionalista della destra al governo in Italia. Non celebra, questa ricorrenza, una storia che dal Risorgimento porta all’unificazione, proseguendo nella democratizzazione repubblicana e nella Costituzione. Piuttosto, va letta in congiunzione con l’altra festa nazionale, la Liberazione del 25 aprile, come l’inveramento istituzionale dello stesso spirito e degli stessi valori: di quell’antifascismo che, nei mesi a seguire, nutrirà di sé la scrittura della Carta fondamentale.

Il 2 giugno, ha scritto il politologo Gaspare Nevola, “traduce sul versante democratico e costituzionale la conquista resistenziale della libertà, conferendo valore fondativo a eventi bellici, alla guerra di liberazione e guerra civile, alla lotta dei partigiani, e ciò per mezzo del coinvolgimento referendario ed elettorale dell’insieme della cittadinanza”.

Istituita ufficialmente come festa nazionale nel 1949, la giornata della Repubblica italiana celebra infatti la data del referendum istituzionale del 1946 in cui i cittadini tutti, donne e uomini, scelsero la Repubblica anziché la Monarchia, e votarono per decidere la composizione dell’Assemblea costituente. Dalle urne sono emerse, al tempo stesso, la forma nuova dello Stato italiano e i fondamenti del suo sistema democratico. E ciò per una scelta, aperta, di discontinuità. Discontinuità rispetto al fascismo, consegnato al passato da un voto che ha visto un’affluenza straordinaria, pari all’89% degli aventi diritto. Rispetto alla Monarchia, che del fascismo si era resa complice. Ma anche rispetto allo Stato liberale, in cui metà della popolazione, le donne, era esclusa del godimento dei diritti politici.

Se di spirito “patriottico” si vuole parlare, nella ricorrenza, può essere solo nei termini della visione di “patriottismo costituzionale” avanzata da Jürgen Habermas: il sentimento di appartenenza e adesione a un patto, di cui la Costituzione si fa interprete e garante, quindi di lealtà ai principi politici universalistici della libertà e della democrazia. Quello che il filosofo tedesco, a partire dagli anni Ottanta, ha proposto come l’unico patriottismo possibile per la Germania, dopo Auschwitz, si distingue in questo dal patriottismo nazionalistico otto-novecentesco: nel fatto che non mobilita l’idea di un “popolo” unito dall’omogeneità di una discendenza, una lingua, una cultura. Piuttosto, il radicamento nella storia della “nazione” si compone in questa visione con l’adesione a principi universali: i diritti e le libertà fondamentali, l’uguaglianza, il pluralismo politico. Aprendosi, quindi, al rispetto e alla convivenza delle differenze.

Il 2 giugno è il giorno in cui nasce il patto costituzionale, con la consacrazione democratica dei partiti politici nati o rinati dalla sconfitta della dittatura, nell’elezione dell’Assemblea costituente. La scrittrice Alba de Céspedes, antifascista e partigiana racconta il giorno di quel voto come il giorno che chiuse una lunga e difficile avventura:

“un’avventura incominciata molti anni fa, prima dell’armistizio, del 25 luglio, il giorno – avevo poco più di vent’anni – in cui vennero a prendermi per condurmi in prigione. Ero accusata di aver detto liberamente quel che pensavo. Da allora fu come se un’altra persona abitasse in me, segreta, muta, nascosta, alla quale non era neppure permesso di respirare. È stata sì, un’avventura umiliante e penosa. Ma con quel segno in croce sulla scheda mi pareva di aver disegnato uno di quei fregi che sostituiscono la parola fine. Uscii, poi, liberata e giovane, come quando ci si sente i capelli ben ravviati sulla fronte”.

Sono testimonianze come questa a insegnare che la Festa della Repubblica, nonostante le stratificazioni retoriche successive e le politiche della memoria che mutano nel cambiare delle congiunture storiche e degli attori, è e resta una festa antifascista, che dell’antifascismo incarna la traduzione istituzionale e costituzionale.

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