I numeri, certo, i numeri dipingono scenari avvilenti. Cresce l’astensionismo, cresce la sfiducia, cresce l’arroccamento dei politici dentro le istituzioni; si riducono le iscrizioni ai partiti, si riduce il coinvolgimentodei giovani, si dice che non siano interessati alla politica. Sì, ma quale politica?
Avremmo dovuto apprendere dalla lezione della rivoluzione globale e transnazionale sessantottina a espandere la nozione di “politico”, non solo nella direzione del suo labile confine con le vite individuali, ma anche verso l’idea che la politica non sia soltanto quella dei salotti.
Ammettiamo che il potere decisionale è concentrato nelle mani di pochi, ma aggiungiamo pure che il potere è diffuso, frammentato in reti di attori non tradizionalmente politici (i media, i tech, gli influencer) che esercitano potere (politico) di pressione e quindi definiscono gli orientamenti dentro i salotti e sugli scranni di legno parlamentari.
Desideriamo però che questa attività di pressione arrivi da direzioni multiple. Immaginiamoci cioè una sporulazione verso il nucleo decisionale, con le spore che portano con sé gli interessi aggregati di vari gruppi e comunità allineati attorno a nuclei valoriali: sono attori non strettamente politici ma politicamente rilevanti, cioè hanno in qualche misura delle risorse per orientare la traiettoria del policy making.
Come? Cooperando, smuovendo risorse, vigilando sull’azione politica, ma anche occupando, manifestando, entrando in dialogo con le istituzioni. Insomma, partecipando.
Sì, ma come si partecipa se la politica di governo è sorda? Come partecipare se i potentati economici possono truccarsi il volto con tinte verdi? Informandosi, prestando accolto alle occasioni di mobilitazione e di incontro, guardando le traiettorie dell’innovazione democratica e accogliendo le pratiche disintermediate ed espanse di esercizio democratico, ora consentite dalle potenzialità del digitale.
Esistono istituzioni su vari livelli che stanno implementando esperimenti per allargare il circuito della partecipazione. In Fondazione Feltrinelli, per esempio, abbiamo ospitato una Spring School sulle Assemblee Cittadine per il Clima: l’iniziativa è stata un successo perché davanti a un pubblico internazionale di persone con esperienza di mobilitazione sociale, ricerca, amministrazione, non sono state fornite risposte illusorie sulla salvezza di una democrazia in crisi. Si è detto, invece, che la via dell’innovazione dei percorsi di partecipazione è tortuosa e va ricalibrata tutte le volte, per poter ritrovare il come intergenerazionale, intersezionale, interclassista della partecipazione.
Le testimonianze sono state tante, dalla Francia di Lise Deshautel all’Irlanda di Katie Reid, passando per i suggerimenti sapienti di Graham Smith e Yves Dejaeghere che con lucidità hanno rotto l’incanto del motto per cui ciò che conta è la moltiplicazione delle occasioni di partecipazione.
Già in precedenza ci siamo chiesti in Fondazione “quanta” democrazia vogliamo, se siamo attrezzati e pronti a rispondere alle chiamate d’aiuto delle democrazie in crisi. Abbiamo assunto una posizione normativa chiara, e cioè che una democrazia in salute deve moltiplicare la domanda e l’offerta democratica, ma che a differenza delle leggi di mercato, il punto di equilibrio tra queste due tendenze non può essere univoco.
Immaginiamoci un atomo che vibra senza sosta attorno al suo centro, e che questa energia determini la temperatura del corpo democratico: non potremo mai individuare, direbbe Heinsenberg, l’esatta posizione di quell’atomo irrequieto, così come non si può sperare di trovare l’ottimo paretiano dentro il mercato delle idee.
Per questo, durante la Spring School organizzata in collaborazione con FIDE e KNOCA, sono state messe in luce le sfide e le responsabilità in capo alle istituzioni per garantire la qualità del momento deliberativo, con mandati chiari e processi di reclutamento inclusivi, per assicurare eguale rappresentazione attraverso procedimenti argomentativi basati sul mutuo ascolto e su ragionamenti ponderati.
Ma come si fa a tenere insieme questa complessa rete di rapporti? Come si scelgono i cittadini chiamati a partecipare? E come si garantisce che gli esiti di questi incontri assumano legittimità anche agli occhi di chi non ha potuto sedere al tavolo del confronto?
Le questioni sono spinose ma tutte salienti se vogliamo proseguire nel tentativo di garantire ai membri della comunità di esercitare un atto collettivo di potere e di incrementare, nell’epoca della disintermediazione, la socializzazione politica.
Non si tratta di auspicare un’oclocrazia, cioè una degenerazione della democrazia nella forma del governo delle masse: è invece un tentativo, quello che facciamo, di identificare punti di contatto, per ricucire la frattura tra spazio istituzionale e spazio politico, tra le contingenze burocratiche e le necessarie “passioni di incertezza” che spinozianamente animano l’arena pubblica. Per farlo, non si può prescindere dal riconoscimento delle barriere socio-economiche strutturali che inibiscono l’avvicinamento verso un confronto continuativo fondato su risorse dialogiche.
Così, le istituzioni devono farsi carico dell’esplosione dell’occupazione simbolica e fisica degli spazi democratici, anche in forme artistiche e creative inedite; allo stesso modo, i partiti devono imparare ad accogliere la rinnovata vitalità movimentistica delle generazioni più giovani, trovando un compromesso tra i bisogni organizzativi e le esigenze contemporanee di fluidificazione dell’attivismo stesso.
Il tentativo di Fondazione Feltrinelli, dentro il Progetto Phoenix Horizon e nel riconoscimento degli sforzi dell’Unione Europea di collocarsi a un livello di interlocuzione massima con i propri cittadini, è quello di tracciare l’andamento del dibattito accademico sui nodi ancora da sciogliere, per incrementare una partecipazione democratica di qualità che non prosegua su binari avulsi dai momenti formali di deliberazione dentro le sedi governative. Con il ciclo di webinars internazionali We the people. The Rise of Citizens’ Voice condivideremo procedure, riflessioni e sperimentazioni in corso sui temi dei mini-pubblici, del ruolo delle piattaforme nella facilitazione di percorsi di democrazia digitale, della rappresentazione dei cosiddetti assenti involontari – e cioè le comunità umane e naturali atavicamente sotto-rappresentate – e forniremo suggerimenti per i facilitatori del futuro. Questi avranno il compito di convogliare proposte e opinioni su questioni che agitano il nostro mondo complesso, per consolidare quella che Norberto Bobbio avrebbe definito “l’equi-prossimità” tra i partecipanti.
Perché ciò che conta non è trovare un compromesso immediato, o che i cittadini con un coup de theatre arrivino a soluzioni salvifiche, bensì che aumenti la consapevolezza che la partecipazione ha moltissime sfumature, ognuna delle quali perfettibile: è questo scenario di miglioramento e rafforzamento delle nostre democrazie che vogliamo presidiare.
Foto copertina di Rosemary Ketchum.