Nell’estate del 1961 a Berlino, all’improvviso e in tempi rapidissimi, fu eretto un muro che divideva la parte della città di pertinenza del blocco Nato da quella legata ai Paesi del Patto di Varsavia. Di fatto divideva la città in due e si ergeva a contenimento dei continui tentativi di fuga dei cittadini dalla Germania Est.
In quei giorni un soldato giovanissimo, Hans Konrad Schumann, in un momento di distrazione dei suoi compagni, salta il reticolato e viene accolto come un eroe della libertà nella zona Ovest. A fermare quel salto a mezz’aria, sospeso tra due mondi, in bilico su una scelta cruciale, è un fotografo, Peter Leibing, specializzato in corse di cavalli e mandato dalla sua agenzia a raccontare quei giorni berlinesi.
Quella foto diventa un’icona, oltre la triste sorte del soldato morto suicida anni dopo o del fotografo stesso. In quello scatto rubato, come si usava spesso tra i fotoreporter di strada, c’è condensata un’epoca. Allo stesso tempo propone una pratica esemplare del fotogiornalismo di allora e di un certo modo di fruire l’immagine fotografica.
Spostiamo in avanti l’asse temporale. Siamo nel 1968 a Milano. Uliano Lucas è un fotografo che coniuga la sua identità politica con le immagini che realizza e che propone ai giornali dell’epoca. Le piazze sono attraversate dalla voglia di cambiamento, con gli operai e gli studenti che sognano un mondo nuovo, a misura d’uomo e di giustizia sociale. Uliano ha iniziato alla fine degli anni Cinquanta, giovanissimo, a sperimentare con una Rolleiflex prestata e ha presto scoperto che il linguaggio fotografico è la cifra espressiva che meglio gli consente di raccontare, di testimoniare. Come molti fotografi della sua generazione non scatta per conservare memoria, per proiettare nella storia il suo tempo ma piuttosto agisce nel presente e per il presente.
Quel giorno Lucas incontra un uomo che è appena arrivato in città. I flussi migratori sono uno dei temi su cui il fotografo si è concentrato di più in quegli anni: in quel bagaglio approssimativo, in quell’incedere, ha già riconosciuto l’ennesimo nuovo abitante del capoluogo lombardo. Si arrivava in quegli anni nelle città del triangolo industriale – Milano, Torino e Genova – attratti dalla possibilità di migliorare il proprio tenore di vita, abbandonando un mondo contadino arcaico e perdente per inseguire il sogno della città e della fabbrica, del frigorifero e del televisore. Il Miracolo economico aveva collocato l’Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta ai vertici dell’economia mondiale ma quella spinta s’era lentamente affievolita e ora, nel 1968, la penisola era scossa da ben altre forze d’urto. Lucas, lo racconta lui stesso, si ferma a parlare a lungo con quell’uomo che arriva dalla Sardegna. Si confrontano, si conoscono, bevono un caffè insieme. Quasi pare concordino sul racconto fotografico che ne nascerà da lì a poco.
In quel momento il soggetto ha consapevolezza, è entrato in contatto con chi lo riprende e ne conosce gli intenti. Siamo lontanissimi dalla pratica dello scatto rubato, che pure ha costruito poetiche fotografiche autoriali di tutto rispetto. Anche l’emigrante sotto il grattacielo milanese sta passando una sorta di soglia, in un rito di passaggio dall’uomo agricolo a quello industriale, ma non resta lì sospeso come il povero soldato Schumann a Berlino. Pare che in quello scatto sia accolto, gli si restituisca la dignità che lui e tutti quelli come lui meritano.
La foto si compone costruendo un compendio formidabile dell’epoca. Il contrasto generato dai cambiamenti sociali ed economici repentini tra passato e presente sono lì davanti a tutti, diventano un racconto che è già patrimonio collettivo. Per noi quella foto non ha più bisogno di una didascalia. Riconosciamo il palazzo e forniamo una datazione guardando le auto parcheggiate e il cielo attraversato dalle linee elettriche. In quell’uomo che cammina all’ombra del monolito spaventoso, del dio di pietra della modernità, rivediamo una traccia che possiamo recuperare dal nostro bagaglio genetico. Gli archivi domestici, i cassetti di casa conservano ancora foto di parenti partiti per cercare fortuna e in quello scatolone e nella valigia di cartone che gravano su quell’uomo – reso goffo dal cappotto di quelli che vanno al Nord – ci sono custodite le memorie di tutto il Paese. Del resto, tra gli amici di Lucas agli esordi della sua esperienza professionale e umana c’è Luciano Bianciardi, potentissimo narratore di quell’epoca, disincantato osservatore di un mondo che cambiava e restava.
La fotografia di Lucas non è il ladro che passa nella folla e infila le mani nelle tasche; piuttosto è un uomo che si siede a un tavolo e chiede ragioni – ed è disposto a spiegare le sue, a negoziare, a rinunciare.
I temi scelti sono mantenuti nella lunga carriera e sono il disagio di non sentirsi mai collocati, la voglia di lottare per un mondo migliore, la necessità di dare voce a chi non ce l’ha attraverso l’uso della pellicola fotografica.
Le foto di guerra non ci proiettano nell’orrore dei corpi dilaniati e dei mezzi bruciati in mezzo alla strada ma raccontano gesti d’abitudine, quotidiani, in cui si legge la pertinace volontà degli uomini di vivere, di non farsi sconfiggere dalla macchina mostruosa di morte. Un percorso di narrazione per immagini mai tradito nel tempo da Lucas e in cui l’unica condizione dettata a se stesso è stata quella di non legarsi mai a un’agenzia o a una singola testata. Perché poter dire sempre la propria versione dei fatti, non avere vincoli, è il requisito principale di chi fotografa rivendicando libertà e liberazione.