Ricercatore per l’Osservatorio sulla Democrazia di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Il programma con cui Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni hanno vinto le elezioni, a Settembre 2022, ben rispecchiava i valori e l’impostazione ideologica della destra sociale. Il cittadino, messo in condizione di lavorare e di crearsi una famiglia attraverso il sostegno dell’intervento pubblico, diventa l’ancora che stabilizza e rafforza la comunità nazionale. A qualche mese di distanza dalle elezioni, possiamo fare una prima disamina delle proposte concrete che Fratelli d’Italia ha portato nel dibattito pubblico per risolvere problemi legati a povertà, disoccupazione e calo delle nascite. In termini di progettualità sociale, cosa sta proponendo il governo? E, al di là delle proposte, quali potrebbero essere (verosimilmente) gli impatti?

È bene partire dalla base, quindi dal Reddito di Cittadinanza. Il Reddito si inscrive nelle misure di ‘reddito minimo’. Si tratta di misure di welfare piuttosto comuni in Unione Europea: è significativo il fatto che il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali preveda il diritto “per le persone che non possono godere dei servizi” di avere un aiuto “extra” dal governo. l’Italia, osserva Marcello Natili, è stato l’ultimo Paese del Sud Europa ad adottare una simile misura.

Non è stata però un’innovazione ben accolta. In questo senso, la proposta del Governo Meloni si inserisce perfettamente nelle critiche che vennero levate contro il Reddito nei mesi precedenti la sua approvazione: il reddito è accusato di essere una misura che disincentiverebbe la ricerca attiva di lavoro. Per correggere questa distorsione, la proposta del governo è quella di creare un nuovo strumento, l’Assegno di Inclusione, che avrà dei criteri di eleggibilità (cioè le regole per ricevere l’assistenza) leggermente diversi dal Reddito.

 

 

Una delle maggiori differenze riguarda infatti la “scala di equivalenza” con cui viene attribuito il “punteggio” che contribuisce a determinare l’importo dell’assegno mensile: nel caso dell’Assegno, le famiglie con maggiorenni under 60 non disabili ottengono un punteggio minore rispetto a quello che avrebbero ottenuto con il Reddito (da 0,40 punti a 0). In altre parole, i maggiorenni “abili” dovrebbero cercare un lavoro. Al contempo, i nuclei familiari con componenti tra i 18 e i 59 anni, senza disabili né minori a carico, non potranno accedere all’Assegno, ma saranno eleggibili (se in situazione di povertà assoluta) per il Supporto per la Formazione e Lavoro.

Questo è un nuovo strumento che fornirà ai beneficiari sia corsi di formazione che un assegno mensile di 350 euro (la cui durata coincide con quella della formazione, e non oltre i 12 mesi). In base a questa riforma, si dovrebbero avere due effetti. Il primo, più ovvio, è un restringimento dell’output del reddito: secondo uno studio condotto dal Corriere della Sera, 615mila individui (400mila famiglie) perderanno il Reddito, circa un nucleo famigliare su tre. Il secondo effetto è la dislocazione di molti ex-percettori di Reddito: grazie al nuovo regime, diremmo pienamente workfarista, gli individui “abili” verranno incentivati a formarsi e accettare offerte di lavoro.

Rispetto alla parte di “attivazione” del Reddito di Cittadinanza (incarnata nella figura del “navigator”), il nuovo sistema di attivazione farebbe perno sul Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (SIISL): trattasi di una nuova piattaforma digitale che dovrebbe permettere di mettere in comunicazione le banche dati dei vari servizi di inserimento lavorativo presenti in Italia. Va fatto inoltre notare che il decreto legge prevede che il SIISL non debba comportare “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, segno che il legislatore voglia ottenere un’implementazione davvero efficiente.

Una volta formati, dunque, che lavoro potrebbero trovare gli ex percettori di Reddito ora riconosciuti come “abili”? In questo senso, è opportuno chiedersi quali siano le politiche del lavoro del Governo Meloni. Negli ultimi mesi del precedente Governo Draghi, la proposta di introdurre un salario minimo legale in Italia, sulla spinta delle iniziative UE, era stata dibattuta pubblicamente. In Europa, 21 Paesi su 27 hanno già questo tipo di misura. Le proposte, presentate alla Commissione Lavoro della Camera, variano: il salario minimo potrebbe andare dai 9 ai 10 euro orari. La logica della proposta è comunque simile: si tratta di stabilire una soglia minima, per tutto il territorio nazionale, al di sotto della quale non si possa essere pagati. La logica, in questo senso simile a quella del Reddito di Cittadinanza, è di portare i salari a una soglia economicamente accettabile.

Secondo una stima INAPP, un salario minimo legale a 9 euro lordi all’ora beneficerebbe (tra tempo pieno e parziale) 2 milioni 500 mila persone. Tuttavia, il Governo Meloni ha rifiutato “pragmaticamente” la misura, spiegando che tagliare le tasse sul lavoro risulterebbe più “efficace”, in quanto il salario minimo potrebbe incentivare i “grandi gruppi economici” a rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori. In fatto di taglio di tasse, effettivamente, il Decreto Lavoro contiene un taglio del cuneo fiscale (nel periodo Luglio-Dicembre 2023) per gli stipendi fino a 25mila euro; questo comporterà un aumento tra i 40 e i 60 euro in busta paga. Le esenzioni fiscali hanno un effetto positivo non solo per i lavoratori, ma anche per le imprese: mentre il salario minimo potrebbe disincentivare le nuove assunzioni (questo almeno il principale argomento per opporlo) le esenzioni fiscali pesano prevalentemente sul bilancio pubblico. Così il miglioramento della situazione economica del lavoratore non è a discapito delle imprese, ma finanziato attraverso la fiscalità generale.

 

E finalmente, dopo aver smesso di oziare a spese dello Stato, e dopo aver appreso una professione grazie al Supporto per la Formazione e Lavoro, essere stato assunto da un’impresa non scoraggiata dal salario minimo, e dopo aver beneficiato di 60 euro aggiuntivi in busta paga per almeno 6 mesi, l’idoneo al lavoro potrebbe pensare che sia venuto il momento di mettere su famiglia. Scelta opportuna: i dati sulla denatalità in Italia destano particolare allarme: in Italia, nel 2022, i nuovi nati erano circa 390mila, il dato più basso negli ultimi 160 anni. La Destra non è l’unica ad essere allarmata da questo dato: la stagnazione demografica pone infatti un’importante ipoteca sulla sostenibilità finanziaria dei servizi di welfare, e potrà comportare un importante calo nel PIL.

Risolvere la crisi demografica attraverso l’immigrazione non è però ben visto da parte di Fratelli d’Italia. Senza scomodare la “sostituzione etnica”, evocata nella gaffe del Ministro Lollobrigida, Fratelli d’Italia ha comunque una forte concezione comunitarista per cui risulta preferibile che gli italiani facciano più figli, rafforzando così la comunità nazionale. Pertanto, il fatto che il nostro lavoratore idoneo si sia reso finalmente indipendente e pensi al grande passo è certamente positivo, ma potrebbe chiedersi, legittimamente, se potrà permettersi di fare figli. Secondo una stima della Banca d’Italia, il costo mensile di un figlio/a è, in media, di 580 euro (nel 2021).

In teoria, gli incentivi devono spingere chi li riceve a prendere scelte che non avrebbero altrimenti preso: in questo caso la scelta è di avere almeno due figli, il minimo indispensabile per evitare il calo della popolazione. Se invece gli incentivi non sono sufficienti a far cambiare idea a chi non vuole più di un figlio, allora saranno solo un premio per chi ha già deciso di avere almeno due figli: qualcosa che non influirà sul declino demografico del Paese. Dunque un incentivo economico dovrebbe permettere almeno di coprire il costo di chi decida di fare figli.

Qual è la politica del Governo? Anzitutto, oggi l’Assegno Unico copre 175 euro per figlio (dunque 1/3 del costo) per chi ha un ISEE inferiore ai 15’000 euro. In questo senso il governo ha aumentato la misura a 262 euro mensili per i figli di età inferiore all’anno, e si propone di rendere l’assegno unico universale (cioè sganciarlo dal calcolo ISEE). A queste misure si aggiunge la proposta di Giorgetti (Lega Nord) di creare una tassazione differenziata tra celibi e chi ha una famiglia con figli. La detrazione proposta è di 10’000 euro l’anno per chi ha almeno due figli, che secondo Open si tradurrebbe in un risparmio netto (annuo) di 1’900 euro a famiglia. Saremmo ancora ben distanti dal costo di 580 euro mensili stimati dalla Banca d’Italia. Tuttavia, va considerato che l’assunto materialista alla base del nostro ragionamento potrebbe non reggere: nessuno vede un figlio solo come una voce di costo, e un aiuto economico sostanziale, unito allo sviluppo di servizi e diritti legati alla conciliazione vita-lavoro potrebbe comunque favorire una ripresa della natalità.

Il nostro cittadino idoneo, partito da una situazione di dipendenza, è ora un lavoratore formato, genitore e ancora di stabilità della comunità nazionale. Le tre politiche analizzate mostrano effettivamente una visione del “patto sociale” coerente, di natura conservatrice, basata su lavoro e famiglia, dove il lavoro è chiaramente la condizione necessaria per poter mettere su una famiglia. La realizzazione di questa visione avviene in parte attraverso strumenti neoliberali, contando più su esenzioni fiscali e incentivi che regolazioni (come il salario minimo), e soprattutto con un occhio di riguardo per le imprese. Si tratta di un progetto ambizioso. Quali possono essere gli ostacoli che il governo potrebbe trovarsi davanti nell’implementare questo piano? Sulla base delle passate ricerche di Fondazione Feltrinelli, ci sembra importante segnalarne tre:

  1. lo scoglio delle politiche attive del lavoro. Oltre al SIISL, il governo investirà molto nelle politiche attive del lavoro. Si tratta di un ambito fortemente frammentato (tra regioni specialmente) e molto arretrato. Nella concezione workfarista che le politiche del governo sembrano mostrare, queste politiche sono centrali. Se non funziona la formazione e l’attivazione, manca la condizione necessaria per far funzionare la riforma del reddito e la lotta alla disoccupazione.
  2. Lo scoglio del lavoro di qualità. In Italia il fenomeno della working poverty in Italia è particolarmente rilevante (11,8% dei lavoratori contro il 9,2% media UE). In queste condizioni ci si può chiedere se sia il Reddito di Cittadinanza a disincentivare il lavoro, o piuttosto il deterioramento delle condizioni di lavoro. Il Governo potrebbe pensare di affrontare anche questi problemi, magari riprendendo il discorso rimasto aperto dal Governo precedente.
  3. Le differenze territoriali e interregionali: anche quando si hanno politiche attive funzionanti, e lavoro di qualità, non è detto che ci siano effettivamente lavori. Le politiche attive, infatti, non creano lavoro: permettono solo un miglior “matching” tra domanda e offerta di lavoro. Quello che crea lavoro sono gli investimenti. In questo senso, esiste un’ampia eterogeneità territoriale in Italia: ci sono territori e regioni dove il lavoro e gli investimenti sono sostanzialmente assenti. Le politiche attive, in questi territori, creerebbero lavoratori formati per lavori che non esistono, non riuscendo quindi a ottenere alcun impatto positivo. Investimenti e politiche attive non possono che essere pianificati
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