Calendario Civile / #10maggio1933
“Bisogna avere il coraggio di dirlo: per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi di libri del nazismo”.
Lo scrisse Enrico Mentana nel maggio di due anni fa, postando sui suoi canali social una foto in bianco e nero che ritraeva un gruppo di nazisti col braccio teso, di fronte a una catasta di libri brucianti, nel 1933. La cosa sollevò un vespaio di commenti, spesso indignati, a cui lo stesso Mentana, piccato, replicò “Vedo molti commenti di asini i quali credono che la cancel culture nasca con la boiata del bacio a Biancaneve, o che sia un’invenzione giornalistica. Siete i terrapiattisti della cultura”.
Ma che cosa era successo? E perché quella presa di posizione?
Il pretesto, secondo molti, era stato un caso mediatico che aveva fatto un po’ di rumore, nei giorni precedenti. Due visitatori di Disneyland avevano attaccato il parco tematico per aver modificato il finale dell’attrazione dedicata a Biancaneve: la ‘tradizionale’ morte di Grimilde era stata sostituita con un bacio, cosa che non era affatto piaciuta ai due avventori. Che infatti si sfogarono su www.sfgate.com:
“[Il principe] Le dà un bacio senza il suo consenso, mentre lei dorme. Non può essere vero amore se solo una persona sa che cosa sta accadendo. Non abbiamo già concordato che quel consenso nei primi film Disney è un problema importante? Che insegnare ai bambini a baciarsi, quando non è stato stabilito se entrambe le parti sono disposte a impegnarsi, non va bene?”.
Nient’altro che una tirata bacchettona da parte di due persone qualsiasi, a volerla leggere per quello che è. O una “boiata”, come l’avrebbe definita Mentana. Ma una “boiata” la cui eco mediatica fu efficacissima per accendere gli animi intorno alla cosiddetta cancel culture, contro cui appunto si scagliò pubblicamente il direttore di “La7”, con un pagarone che – al di là dei giudizi sulla vicenda – pesava come un macigno. E che infatti in molti, me compreso, ritennero fuori luogo.
Troppo cose stonavano, tanto nel dibattito sulla cancel culture in generale quanto nel messaggio di Mentana. Innanzitutto, non era chiaro che cosa si intendesse proprio con cancel culture: dai commenti al post si coglievano generalizzazione, contraddizione, banalizzazione. E un bel po’ di confusione.
A rigore, infatti, con cancel culture ci si sarebbe dovuti riferire a un fenomeno piuttosto specifico. Come hanno in seguito giustamente puntualizzato, tra gli altri, il giornalista Adil Mauro in un articolo per “Jacobin Italia” (Non si può più dire niente, 24 marzo 2022), e Nathasha Fernando, Nadeesha Uyangoda, e Maria Catena Mancuso, autrici della serie di podcast Sulla razza (www.sullarazza.it). Si sarebbe infatti dovuto intendere il fenomeno, nato circa una quindicina di anni e largamente diffusosi dal 2017 nel cosiddetto Black Twitter – una comunità informale su Twitter, composta per lo più da afroamericani, che nella prassi traeva spunto dal Movimento “MeToo” – che riguardava persone o aziende ree di comportamenti giudicati moralmente o socialmente deprecabili, che tramite campagne di comunicazione mirate si chiedeva di stigmatizzare, boicottandone l’immagine.
Un fenomeno, quindi, che aveva canali, bersagli, finalità ben precise. E un nome che nel 2019 il dizionario australiano Macquarie (www.macquariedictionary.com.au) avrebbe eletto parola dell’anno, definendola come “l’atteggiamento all’interno di una comunità che richiede o determina il ritiro del sostegno a un personaggio” che avesse espresso opinioni razziste o che fosse accusato di molestie sessuali.
Ben diverso dalla call-out culture (la richiesta di pubbliche scuse per essersi resi responsabili di fatti o espressioni ritenuti offensivi) o dalla damnatio memoriae (fin dall’impero romano imposta da poteri politici e pubblici dotati di coercitività), a cui tuttavia sarebbe stata assimilata, la cancel culture non aveva quindi nulla a che fare con la censura preventiva o peggio con la distruzione di libri.
Nel 2020, per bocca dei repubblicani avversi al movimento Black Lives Matter, Donald Trump in testa, divenne peròtermine ombrello, buono per puntare il dito contro rivendicazioni e comportamenti eterogenei – dal revisionismo all’iconoclastia, dalla rimozione di monumenti di schiavisti alla rivisitazione della toponomastica in chiave de-coloniale, dalla censura preventiva di alcuni editori alla censura ex-post dei commentatori – mantra da ripetere in ogni occasione per rimarcarne la minaccia. Senza peraltro spiegare se e che cosa, davvero, si stesse cancellando, e per mano di quale presunta dittatura del ‘non si può più dire niente’[1], sorella più giovane ma ben più aggressiva di un altro (fantomatico) dispotismo: quello del ‘politicamente corretto’.
Non che politicamente corretto e cancel culture non esistessero o fossero invenzioni.
Hanno entrambi una storia, uno sviluppo, una letteratura; le loro contraddizioni e i loro eccessi, come qualsiasi movimento culturale di rottura. Ma non esistevano e non esistono nei termini in cui venivano e sarebbero stati descritti. Ovvero come il vero grande problema della società (Trump dixit)[2], la tomba della libertà di espressione (ma davvero? E com’è allora che tutti possiamo dire e scrivere pressoché di tutto, almeno online?). Un’oscura regia – nelle mani di chi? – dietro alla rimozione di Omero e Shakespeare dai programmi scolastici (leggi: il loro ridimensionamento in alcuni – pochi – curricula universitari), alla riscrittura di Road Dahl (in realtà, si tratta di adattamenti, che affiancano i testi originali), all’epurazione delle fiabe Disney (ri-adattamenti anch’essi: non lo si fa da secoli, con le Mille e una notte?), e a chi più ne ha più ne metta. Non che certi episodi – spesso poco più che aneddotici – siano stati inventati: ma ciascuno risponde alle proprie dinamiche, che andrebbero lette nei loro contesti, e non certo come ingranaggi di una stessa trama che fa comodo – per pigrizia, per propaganda, per clamore – voleva presentare come lineare. Tra l’altro, l’unico rogo di libri di cui si ha traccia, non ascrivibile a un movimento culturale o politico, ma solo alla bigotta solerzia di una scuola cattolica dell’Ontario, è quello avvenuto nel settembre del 2021, con cui effettivamente vennero bruciati una trentina di libri accusati di veicolare stereotipi negativi sugli abitanti delle Prime Nazioni, sugli autoctoni, e su Inuit e meticci. Un episodio esecrabile certo. Ma, appunto, soltanto un episodio[3].
Inutile dire che da noi, in Italia, tutta questa roba è stata una manna dal cielo per chi non vedeva l’ora di buttare ulteriori strami sul ‘politicamente corretto’ e su alcune sue rivendicazioni. Gli aneddoti sono così diventati casistica, anzi allarmante tendenza pronta per essere gettata nella mischia della polemica locale, che avrebbe mescolato la vernice sulla statua di Montanelli con la libraia che non voleva esporre la biografia di Giorgia Meloni, il presunto accanimento contro i classici ‘cis-gender-bianco-razzisti’ con le desinenze femminili e lo schwa, spesso messi in fila nella più banale e prevedibile delle fallacie, quella del piano inclinato.
Di roghi di libri neppure l’ombra però – che iattura, eh! – né di inquietanti disegni orwelliani. E però al paragone di Mentana in molti ci hanno creduto e ancora ci credono.
Come se un’entità sfuggente, ambigua, ormai poliforme come quella cui oggi si dà l’etichetta di cancel culture – dalle molte eterogenee rivendicazioni, declinazioni, ed esiti; dalla frammentata spinta movimentista – fosse assimilabile a una realtà storica compatta, fisicamente violenta, coercitiva e già egemonica come quella dei (roghi) nazisti nel 1933 e del loro portato materiale e simbolico. La cosa paradossale è che – di qua e di là dall’oceano – proprio quelli che inveiscono contro la cancel culture, paventando gli evi più oscuri, sono quelli che non fanno entrare nelle biblioteche pubbliche i libri che parlano di sessualità, o se scritti da autori e autrici trans, come avviene in molte amministrazioni a guida repubblicana in America. O sono quelli che vorrebbero cancellare dalla Storia l’antifascismo, occultandone pure il nome, come molti esponenti del Governo italiano cercano ogni giorno di fare. Loro sì che fanno paura: perché hanno il potere, sono il potere. Peccato che Mentana non vi abbia ancora dedicato un post.
[1] Su questo tema, rimando alla discussione a più voci contenuto in Aa.Vv., Non si può più dire niente?, Milano: UTET, 2022.
[2] Rimando a Political Correctness in the Era of Trump: Threat to Freedom or Ideological Scapegoat?, ed. by
Luigi Esposito and Laura Finle, Cambridge: Cambridge Scholars Publishing, 2019, https://www.cambridgescholars.com/resources/pdfs/978-1-5275-2077-6-sample.pdf.
[3] Cfr. https://toronto.ctvnews.ca/ontario-school-board-regrets-burning-books-in-the-name-of-reconciliation-as-part-of-educational-program-1.5580647.