Università degli Studi di Catania

Nei giorni scorsi, il ministro Francesco Lollobrigida, Ministro dell’agricoltura dell’Italia, deve aver iniziato a interessarsi alla “umano-cultura”, cadendo in un terreno scivoloso e minato, poiché ha ripreso incautamente una teoria antica, quella della “sostituzione etnica”, cara alla destra estrema già dagli inizi del Novecento, declinandola in una realtà oggi profondamente diversa.

Già Maurice Barrès nei primi anni del secolo scorso, in un clima di nazionalismi montanti, parlava di “grand remplacement” affermando che «una nuova popolazione avrebbe invaso la Francia e preso il potere mandando in rovina la patria.»

Tale pericolo annunciato aveva buon gioco a propagarsi suscitando paura soprattutto negli strati sociali più bassi, timorosi di perdere i loro pochi ma irrinunciabili privilegi, in termini economici e in generale di status. L’idea razzista basata sull’assunto di una “purezza razziale” e “superiorità della razza bianca” diventa allora il tratto di una cultura politica retriva e custode di una identità escludente che troverà soprattutto in Germania il suo compimento con l’ascesa di Hitler al potere e lo sviluppo dell’antisemitismo, fino alle sue tragiche conseguenze anche in Italia durante il regime fascista di Mussolini e in altri regimi autoritari.

Nel secondo dopoguerra questo razzismo rozzo, costruito su una precisa gerarchia delle etnie, à la Gobineau, è stato pian piano sostituito con un razzismo non più su basi biologiche, ma culturali, quindi più accettabile da alcuni ambienti conservatori. Questa nuova forma di razzismo sottolinea infatti le profonde differenze di cultura, costumi e tradizioni che comunque renderebbero impossibile l’integrazione di altri popoli nelle società occidentali, in Europa così come negli USA. Oggi si presenta temperato rispetto al passato, ma è ugualmente intransigente nel segnalare il pericolo di una mescolanza che minerebbe l’identità della società, di un Paese, di una nazione, poiché si fonda sulla fallace identificazione della nazionalità con l’etnia, cosa contraddetta fra l’altro dalla storia intera dell’Occidente dove non vi è paese che non sia il risultato dell’intreccio di popoli diversi nel corso dei secoli.

Quindi dove e quale sarebbe la razza pura, ministro Lollobrigida?

Così negli anni Settanta e Ottanta questa nuova versione del razzismo si afferma soprattutto a opera di Renaud Camus, che dà l’avvio alla teoria del “grand remplacement” e afferma esplicitamente nei suoi scritti che non si tratta di razzismo, ma di “difesa della civilizzazione”, ossia un modo fragile ormai di schivare l’accusa di xenofobia. Questo elemento è poi stato fatto proprio dalla destra estrema in vari paesi e teorizzato in America dalla cosiddetta destra alternativa, da Sarah Palin a Donald Trump, oltre che dai vari movimenti identitari europei. L’ultimo a parlarne in Francia è stato Eric Zemmour, l’editorialista della destra estrema, più a destra di Le Pen, feroce fustigatore degli immigrati, presentatosi alle ultime presidenziali e poi ritiratosi, fra l’altro accusato e condannato due volte per il reato di “istigazione all’odio razziale, protagonista di manifestazioni violente l’anno scorso a Parigi in piena campagna elettorale.

Una delle conseguenze di questa paura della “sostituzione etnica” è l’invito alle donne a fare più figli, un ritorno incauto e anacronistico alle madri italiche cui il fascismo faceva appello perché fossero “fattrici di eroi per la patria” per un patetico sogno imperiale.

Ora il ministro Lollobrigida, oltre che ripassare la storia, dovrebbe farsi due conti: secondo i dati Istat gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2021 sono 5.171.894 e rappresentano l’8,7% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 20,8% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dall’Albania(8,4%) e dal Marocco (8,3%). Questo non può fare certo pensare a una invasione perniciosa che sboccherebbe nella “sostituzione etnica”.

Anzi, dice chiaramente quali sono i movimenti, gli aggiustamenti, le mescolanze inevitabili in una realtà globale, una condizione con cui confrontarsi, non per ostracizzarla ma per riuscire a governarla con i mezzi, le idee, i valori propri dei sistemi democratici. E lo stesso vale per il problema dei migranti che continuano ad arrivare sulle nostre coste, ai quali lo “stato di emergenza”, proclamato dal governo Meloni per indurre il panico fra la popolazione, toglie protezione inasprendo le regole e le condizioni già restrittive delle scelte politiche precedenti sul problema dell’immigrazione.

Lo stato di emergenza (e le leggi che ne conseguono) viene proclamato per fatti naturali, catastrofi che improvvisamente piombano su una società (alluvioni, carestie, terremoti) o per fatti gravi e ripetuti di terrorismo e attacco allo Stato e alla sicurezza fisica dei cittadini. Ora lo stato di emergenza viene invece invocato per dire che ci sono nemici alle porte e bisogna fermarli per preservare la sacra identità italica in pericolo di estinzione. I fenomeni migratori hanno oggi più che mai un carattere strutturale, non contingente, legato alla storia coloniale passata dell’Europa e all’incamminarsi inevitabile degli uomini delle periferie del mondo verso il centro di esso in cerca di prospettive di vita migliori, di salvezza dal bisogno, dalle guerre, o da tirannie.

È un movimento inarrestabile col quale occorre misurarsi con coraggio, capacità propositiva, soprattutto attitudine a coltivare il modello di società aperte in cui libertà e tolleranza non siano concetti vaghi e vuoti, a uso dei potenti di turno, dei governi che si alternano, ma si esprimano con azioni concrete nel rispetto della libertà dei tanti, non di pochi.

Karl Popper, filosofo autenticamente liberale, ha analizzato tutto ciò già a metà del Novecento mettendo in guardia contro i nemici delle vere autentiche democrazie, i fautori del pensiero unico, i portatori di verità assolute, fuori da ogni controllo.  Soprattutto, egli ha tracciato un sentiero importante quando afferma che vi è affinità fra il metodo e le procedure democratiche e il metodo della scienza: entrambi hanno bisogno di ragione e passione, di accordo con i fatti e le realtà che mutano, cosicché un’ipotesi possa essere riformulata diversamente, di realismo e immaginazione, di controllo rigoroso delle teorie formulate per verificarne la validità nel mutamento della società poiché nuovi fatti, fenomeni o nuove scoperte possono  smentirle. Un pensiero da rivisitare questo per non rimanere con vecchie feluche che non riparano da nulla ma annebbiano soltanto la vista.


In copertina. Art District mural with an important message, by Corie Mattie, and LA Hope Dealer, Hewett St.!

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