di Daniela Saresella
Università degli Studi di Milano

Il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta è stato connotato da una profondi mutamenti del quadro politico internazionale e nazionale: il disgregarsi del polo comunista, con la caduta del Muro di Berlino ebbe implicazioni politiche nel nostro Paese e la conventio ad excludendum di quel periodo, cioè il presupposto che fosse necessario escludere il Pci dal governo in quanto non in sintonia con i valori dell’Occidente, cominciò a mostrare segni di cedimento, anche per la decisione di Achille Occhetto di riconsiderare i presupposti ideologici del partito. Tali cambiamenti provocarono ripercussioni anche nella Dc, perché il partito che aveva saputo catalizzare sia l’elettorato cattolico che quello conservatore rischiava di perdere ora il suo ruolo di argine al comunismo: nel dicembre del 1990 il gesuita Giuseppe De Rosa – su “La Civiltà cattolica”  –, commentando l’intenzione di Occhetto di “tagliare gli ultimi ormeggi che tenevano legato il Pci alla tradizione leninista”, aveva ben evidenziato come il riflesso di questa mutazione del Pci sarebbe stata la fine di un “quadro politico polarizzato sull’opposizione frontale Dc-Pci”.

Il rischio che correva il partito cattolico era quello di perdere il consenso dell’elettorato più attento alle questioni sociali e di assurgere solo al ruolo di “polo moderato”.

Il Pci portò a termine il suo percorso di rinnovamento nel gennaio del 1991, quando decise di cambiare denominazione in Partito democratico della sinistra. Emanuele Macaluso ha sostenuto che la scelta del nome rispondesse alla convinzione radicata nella classe dirigente che il socialismo fosse ormai destinato a morire insieme al comunismo, e che le “macerie del Muro di Berlino” avrebbero seppellito la storia della sinistra novecentesca. Non tutti erano d’accordo con tale lettura, e la componente del Pci più legata alla tradizione marxista decise di unirsi agli epigoni della sinistra radicale, dando vita a Rifondazione comunista, il cui primo segretario fu l’ex dirigente della Cgil Sergio Garavini.

Le novità del 1991 non si fermarono qui: dalla confluenza della Liga veneta e della Lega lombarda, nacque la Lega nord di Umberto Bossi, che raccolse voti soprattutto nelle zone tradizionalmente “bianche” (il Veneto e l’alta Lombardia); contemporaneamente a Palermo (ma con ramificazioni anche nel Nord) prendeva corpo il movimento della Rete (di Leoluca Orlando, Nando Dalla Chiesa e Diego Novelli); si affermò poi il movimento referendario di Mario Segni, a testimonianza di un universo cattolico in profondo travaglio: da lì a poco infatti la Dc si sarebbe sciolta per dar vita al nuovo Partito popolare italiano (1993).

Anche il mondo socialista era in un momento di difficoltà, travolto – dopo la scoperta degli illeciti di Mario Chiesa – dagli scandali di tangentopoli, e ciò lo avrebbe portato allo scioglimento: a Bettino Craxi furono infatti attribuite molte delle responsabilità per la degenerazione morale che il Paese stava vivando. Paradossalmente – notava Norberto Bobbio su “Reset” nel dicembre 1993 – il più forte partito comunista dell’Occidente riuscì a sopravvivere al crollo del “mito sovietico”, cambiando nome e rinnovandosi profondamente, mentre fu il Psi, suo eterno rivale, e in teoria vincitore nello scontro tra le due anime della sinistra, che venne fortemente penalizzato dalle contraddizioni di quegli anni.

Tangentopoli rappresentò senz’altro uno tsunami nel sistema politico italiano, a cui si aggiunse il gravissimo squilibrio economico che emerse nei primi anni Novanta: ciò ha indotto Luciano Cafagna a definire questo periodo uno dei più difficili per il Paese, che cadde in una crisi di carattere morale, istituzionale e fiscale: si creò “grande slavina” che trascinò con sé un ceto politico ormai delegittimato.

Lo scollamento tra cittadini e partiti era già risultato evidente quando nel giugno del 1991 c’era stata la consultazione referendaria sulla riforma elettorale che prevedeva l’abolizione delle preferenze multiple, promossa da Mario Segni – con il sostegno di Pds, Pri, della corrente Dc di De Mita, dei Verdi, e di varie associazioni cattoliche – e con la sprezzante opposizione di Craxi. Contro ogni previsione il quesito ottenne un buon successo, grazie anche alla propaganda televisiva che lo aveva presentato agli italiani come lo strumento per dare “un calcio nel sedere” alla partitocrazia: si recarono alle urne il 62,5% dei cittadini, dei quali il 95,7% si espresse a favore del cambiamento.

Il 18 e il 19 aprile del 1993 furono sottoposti agli italiani altri 8 quesiti, proposti dai Radicali, e alcuni anche da Segni, relativi al finanziamento pubblico dei partiti, alla soppressione del Ministero delle partecipazioni statali, alla elezione del Senato, all’abrogazione delle pene per la detenzione ad uso personale di droghe, etc.

Significativo è che il referendum che prevedeva la cessazione al finanziamento dei partiti ottenne più del 90% del consenso. Nel giugno del 1993 si tennero poi le prime consultazioni per l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Provincie, che introdusse a livello locale un modello semipresidenzialista. La coalizione di sinistra ottenne un buon successo: Riccardo Illy vinse a Trieste, Massimo Cacciari a Venezia, Adriano Sansa a Genova, Francesco Rutelli a Roma, Antonio Bassolino a Napoli, Leoluca Orlando a Palermo; ma riprova della forza politica della Lega c’era la vittoria di Marco Formentini a Milano, contro Nando dalla Chiesa.

Il risultato delle amministrative diede spinta a un nuovo progetto politico, voluto con determinazione dall’ex magistrato Antonino Caponnetto, lungamente impegnato a Palermo nella lotta alla mafia ed esponete della Rete, che lanciò l’idea di una coalizione politica dei Progressisti. La coalizione si presentò alle elezioni in alternativa al progetto centrista di Martinazzoli (segretario del Ppi) e di Segni, ma soprattutto alla proposta politica di Berlusconi, Bossi e Fini. Forza Italia, alleata con la Lega di Bossi al nord, e con Alleanza nazionale (nata nel gennaio 1994 a Fiuggi, sulle ceneri del Msi) al sud, riuscì a raggiungere un buon successo, catalizzando su di sé una parte consistente del voto dei ceti moderati che tradizionalmente avevano votato per il partito cattolico: il nuovo sistema elettorale (legge Mattarella dell’agosto 1993) svantaggiava le coalizioni di centro (Ppi ottenne solo l’11,1% dei voti, il Patto Segni il 4,6%) e avvantaggiava gli ampi accordi. Il Polo delle libertà e del Buon governo ottenne il 42,84% dei voti, mentre l’Alleanza dei Progressisti il 34,34%. Nasceva così il primo governo di Silvio Berlusconi, protagonista da allora della vita politica del Paese.

Luca Ricolfi – in un articolo su “Il Mulino” del giugno 1994 – ha messo in evidenza come Forza Italia fosse stata in grado di spostare, attraverso il monopolio delle televisioni private, quattro milioni di voti, agendo sul 10% dell’elettorato indeciso; ma alla forza indiscutibile dei mass media bisogna aggiungere, per comprendere l’entità del fenomeno, anche la grande capacità di Berlusconi di captare il sentire di molti italiani. A fronte di una classe politica (soprattutto di sinistra) sempre incline a voler rieducare e indirizzare il popolo, con un approccio “ortopedico e pedagogico”, che sottolineava problemi come la corruzione, l’evasione fiscale e la connivenza tra settori della società e ambienti criminali, il leader di Forza Italia rivendicò il diritto – come mette in evidenza Giovanni Orsina – di superare il “moralismo” imperante, rifiutando ogni vincolo che limitasse la libertà personale e di impresa. Nel 1994 iniziava dunque non solo una nuova legislatura, la XII,  ma una nuova epoca della cultura politica italiana.

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