Università degli Studi di Milano

Alfredo Cospito è formalmente detenuto in regime di 41bis e al momento ricoverato nel reparto penitenziario dell’Ospedale San Paolo di Milano, per le critiche condizioni di salute in cui versa dopo oltre 115 giorni di sciopero della fame. Tra le motivazioni con cui ha motivato la scelta, ha detto: «La vita non ha senso in questa tomba per vivi». La vicenda penale e penitenziaria di Alfredo Cospito è difficile da riassumere perché sono stati molti i passaggi giudiziari e non univoche le decisioni adottate dalle magistrature competenti per quel che riguarda la questione di diritto, ma importante sia per gli aspetti concreti e specifici che per quelli paradigmatici. Il garbuglio processuale, e il dramma umano si fondano sulle difficoltà definitorie, e in particolare:

– Se il FAI-FRI (Fronte anarchico informale-Fronte Rivoluzionario insurrezionalista) è un’associazione strutturata, ossia i membri e/o i participanti violano l’art. 270 cp: “Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell´ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni”.

– se le azioni compiute da Alfredo Cospito, soprattutto connesse al c.d. processo “Scripta manent” possono rientrare nella previsione normativa dell’422 c.p. (Strage) Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 285, al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è punito con l’ergastolo. O se invece, come richiesto dal ricorso del Procuratore Generale, la Cassazione ha rinviato alla Corte di Appello per la rideterminazione della pena riqualificata come art. 285 c.p. (Devastazione, saccheggio e strage) Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo.

La questione giuridica risulta molto complessa anche per gli addetti ai lavori, più facile però è intuire quanto sia sottile il confine interpretativo tra “porre in pericolo la pubblica incolumità” e “attentare alla sicurezza dello Stato” e quanto, più che mai, questa vicenda coinvolge la sfera del politico e della politica. L’invisibile differenza tra le due definizioni ci offre la misura e lo iato su cui si fonda la “Difesa sociale” e anche il prezzo da pagare per il residuo di crimen lesae maiestatis presente in democrazia.

Come sostiene Foucault (2019, pp. 208-9) «la penalità è, da cima a fondo, politica. […] Bisogna dunque trarre questa conseguenza logica: se il potere è danneggiato dal crimine, il crimine è sempre, almeno in una delle sue dimensioni, un attacco al potere, una lotta contro di esso, una sospensione provvisoria delle sue leggi. E in fondo è proprio ciò che diceva il crimen maiestatis dei romani, o la generalizzazione dei casi di pertinenza regia». Se in generale il crimine è stato svuotato di questo residuo di possibilità, diverso è il caso di quella serie di reati che esplicitamente si rivolgono al nucleo politico dello Stato.

Foucault sostiene però che «la forza della prigione è l’incessante capillarità che la alimenta e la svuota; essa funziona grazie a tutto un sistema di valvole grandi e piccole che aprono e chiudono, aspirano, sputano, versano, inghiottono, evacuano […] il setaccio, il bordello, l’inevitabile Motel» (Foucault, 1975, p.i).

La prigione per Foucault si colloca al centro di una serie di incroci, di porte girevoli, di traiettorie intermittenti che passano anche attraverso la sospensione della libertà. Le prigioni che attraversiamo con il monitoraggio delle condizioni di detenzione sono spessissimo inevitabili motel. I centri clinici penitenziari (anche quelli eccellenti) con le finestre aperte anche d’inverno per sopravvivere all’odore dei corpi che lo attraversano. O ancora ai reparti di “Osservazione”: psichiatrica, disciplinare, prevenzione suicidaria. Sono angoli di istituzione che si sovrappongono nelle immagini ora ad ospedali, ora a lungodegenze, ora a manicomi. Sono tutti dolenti ed inevitabili motel.  Nello stesso passaggio teorico, Foucault ci avverte che il carcere è anche altro: “una fortezza altera che si chiude sui grandi signori della rivolta o su una subumanità maledetta”. In poche parole, il filosofo ci elenca i modi e gli attraversamenti dello spazio-prigione: la pattumiera senza speranza per i maledetti, l’inevitabile motel per i comuni, e la fortezza altera per il crimine politico.  Ẻ in questa tensione che si colloca la vicenda di Alfredo Cospito. Perché la “strage politica” contestata all’anarchico si fonda su interpretazioni semiotiche della devianza, l’unico piano in cui il sistema simbolico in atto permette di riconoscere una differente intenzionalità nel collocare il medesimo pacco di esplosivo. Quel sistema, basato sulle rivendicazioni, che permette di vedere in filigrana il punto di contatto tra la gestione della criminalità e  il meccanismo proprio della punizione ossia il residuo politico del diritto bellico. Perché “attentare alla sicurezza dello Stato” è un atto che simbolicamente trasforma l’autore del gesto in un nemico, e pertanto apre ad applicazioni di misure punitive e sospensive profondamente differenti. Il reato politico è il punto di caduta del sistema delle garanzie. La difesa sociale svela una delle funzioni proprie dell’istituzione carcere, oltre a quelle dichiarate di rieducazione e di privazione della libertà, ossia l’ombra vendicatoria del carcere come forma di potere, e come manifestazione propria della sovranità statale. È in questo quadro complesso proprio più della teologia politica che delle pene quotidiane che si inserisce l’affaire Cospito.

Con un balzo narrativo e temporale sappiamo che la primavera scorsa la pronuncia della Cassazione ha modificato il capo d’imputazione, dalla contestazione di strage contro l’incolumità ad strage contro la sicurezza dello Stato. Un passaggio che ha avuto dirette conseguenze sulle possibili chances di una pena che “tenda alla rieducazione del condannato” e che sia orientata al principio di umanità. Proprio perché l’art. 285 per la sua natura di reato contro la personalità dello Stato, rientra nelle previsioni dell’art. 4bis, aprendo, in caso di “perpetrazione del reato di istigazione” alla possibilità da parte del Ministro della Giustizia di modificare il regime detentivo, da un regime di Alta Sicurezza 2, al regime previsto dall’art. 41bis dell’Ordinamento penitenziario. Riformulazione avvenuta nel caso Cospito il 4 maggio 2022. L’articolo 41bis si compone di due tipi di sospensione del regime penitenziario ordinario, effetti di due momenti storici differenti: il primo tipo di sospensione, contemplato dal comma 1 dell’articolo si applica ai singoli istituti penitenziari (o parti di essi) ed ha una matrice risalente nel tempo. Presupposto della misura è una pericolosità interna all’Istituto e la sua funzione è quella di ripristinare l’ordine e la sicurezza. é una previsione normativa che nasce nel 1986, sul finire degli anni di piombo, introdotta con la legislazione d’emergenza per porre un freno alle rivolte. Questo primo abbozzo del regime penitenziario, diventa rapidamente oggetto di interesse, per il potenziale negoziale rispetto alle difficoltà presentate dai grandi processi per la criminalità organizzata. E nonostante si ritenga che la paternità del secondo comma debba essere attribuita a Giovanni Falcone, quelle righe del comma 2 vengono introdotte, quasi a compensazione all’indomani della strage di Capaci, con il “Superdecreto antimafia Scotti-Martelli”, assumendo una quasi dimensione di sacralità e rendendo molto complesse tutte le discussioni sulle possibili revisioni di una misura nata come emergenziale.

Il comma 2, infatti, prevede un’ulteriore sospensione delle normali regole di trattamento: quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, il Ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui all’art. 4bis comma 1 O.P. il regime ordinario, disponendo il regime speciale del 41bis. Il presupposto del provvedimento è una pericolosità esterna all’istituto: la misura mira infatti a recidere i collegamenti tra il detenuto o internato e un’associazione criminale, terroristica o eversiva. La misura è revocabile con la cessata pericolosità (valutata dal magistrato di Sorveglianza) o con la collaborazione (il c.d. “pentitismo”) , ma spesso viene protratta. Inoltre, i reati per i quali si applica, disciplinati dall’art. 4bis (introdotto nel 1991), sono gli stessi che prevedono la misura del c.d. “ergastolo ostativo”, una misura ulteriore che non riguarda tanto la vita penitenziaria, ma la traiettoria (non) rieducativa.

L’ergastolo ostativo esclude i detenuti dai benefici penitenziari, rendendo la pena, nei fatti, un “fine pena mai”.

Le due misure rappresentano quindi un’anomalia rispetto alla funzione delle pene così come previste dalla Costituzione all’art. 27, che “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tali contraddizioni sono state messe in luce in più occasioni, sia dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2019 raccomandò alle autorità italiane – per il 41bis – di effettuare sempre “una valutazione del rischio individuale che fornisca ragioni oggettive per la continuazione della misura”; sia dalle condanne della Corte Europea per i diritti dell’Uomo nel 2019 (Sentenza Viola vs. Italia) che dalla Corte Costituzionale nel 2018, 2020 e 2022. Se le corti sono state più timide rispetto alla discussione dottrinale sul 41bis, le pronunce sono state molto chiare per quel che riguarda l’ergastolo ostativo, hanno definito come trattamento inumano e degradante perché la pena deve sempre essere coerente con il principio di dignità umana, principio che vieta di privare un condannato della possibilità di reinserirsi nella società. La durezza delle Corti rivela e critica quindi quell’ombra del potere, e cerca, dove possibile, di limitare l’ipertrofia della teologia politica dello Stato.

Come afferma Lefebvre (1974, p. 325), lo spazio, «come prodotto della violenza e della guerra, è politico; se istituito da uno Stato, è istituzionale». Ancora, nel suo classico De l’état (1976-78) Lefebvre afferma che lo spazio di controllo statale, che è spazio di controllo e di scambio, coincide con il modo di produzione del tempo, un tempo difficilmente misurabile, sebbene sia proprio il tempo della pena a definire la permanenza fisica nello spazio istituzionale. Solo un tempo senza fine permette di fondare la dimensione politica dello spazio-carcere, la sua minaccia, e la sua eccezionale applicazione.

Di circa 56000 detenuti ristretti, al momento sono reclusi in regime di 41bis  in 12 istituti italiani 748 detenuti, di cui 13 donne.

Nel caso concreto, la valutazione fatta prima dai Tribunali di Sorveglianza, e poi dalla ministra Cartabia si fondava sulle lettere e comunicazioni che Cospito aveva intrattenuto con l’esterno dal carcere di Terni.

Alfredo Cospito viene trasferito nel carcere di Bancali, dove il 20 ottobre 2022 ha iniziato uno sciopero della fame, che continua tutt’oggi, dopo un ulteriore trasferimento milanese, da oltre 3 mesi. Questo caso, come un caleidoscopio, apre a tutti i riverberi del politico e della politica. Come scriveva Ferrajoli parlando del processo alla “7 aprile”, “Nei processi di questo tipo sembra mutato il principio di legittimità: non più la legittimazione legale, ma la legittimazione politica” (Ferrajoli, 1983).

Politico è il reato di Cospito: “strage politica”. Politiche sono le sue dichiarazioni che hanno visto sollevare la questione della loro interruzione. Politica è l’adozione della misura del 4 bis, sia per gli intenti dichiarati che per quelli latenti, sia per i reati di difesa sociale, che ancor più per quelli di criminalità organizzata. E ancora, politico è lo sciopero delle fame, iscritto in una storia di disobbedienza civile penitenziaria, che richiama tanto il satyagraha di Gandhi e Pannella, quanto le prigioni palestinesi, quelle irlandesi, e quella tedesca di Stammheim.

Politico è tutto ciò che vede la difesa sociale dello stato come bene giuridico prevalente. Politica è inoltre la possibile via d’uscita, con una revisione ministeriale da parte del guardasigilli Nordio, a fronte di differenti valutazioni dell’opportunità della misura da parte dei differenti tribunali di sorveglianza.

Politica (timidamente politica) è la decisione di delegare alla pronuncia della Cassazione la scelta, coprendo col velo del giuridico una pronuncia che sarà comunque politica, sia se accoglierà la revoca, sia se la rigetterà. Perché politica è la polarizzazione attorno a questo caso: dalle parole di Donzelli allo sguardo continuo tra quanto avviene nel carcere e quanto avviene al suo esterno. Perché quella battaglia semiotica continua, e ogni gesto, ogni mossa, è all’interno di un quadro di significazione, perché è altrettanto centrale la questione della possibile disponibilità o indisponibilità dello Stato a negoziare: per una parte dell’opinione pubblica con le richieste di un detenuto; per la restante, sulla necessaria revisione di misure obsolete, non proporzionali e in contrasto col dettato costituzionale.

Come uscire da questo impasse? Attraverso un’assunzione di responsabilità, che deve essere collettiva e non individuale.

Da parte del governo, da parte della magistratura, ma soprattutto da parte di noi tutti cittadine e cittadini, perché il carcere è sempre politico, non solo quando le vicende concrete ne sfidano i meccanismi o ne spogliano le finzioni, perché rappresenta lo spazio istituzionale in cui si manifesta il legittimo uso della forza nelle democrazie mature, e dove più facilmente se ne possono vedere le storture e anticipare i sintomi di possibili abusi. Lo è quando è fortezza altera, ma forse ancora di più quando funziona come inevitabile motel, o ancora rinchiude nelle sue mura la subumanità maledetta. Il carcere, volente o nolente, per le funzioni che svolge, è il punto di contatto più stretto che i cittadini hanno con lo Stato, perché quel simbolico si fa fisico, mura e celle, spazi e limitazioni; perché la forza di legge si fonda sulla punizione come patto uguale e contrario di libertà.

Perciò questa vicenda ci interroga non solo sulle possibili negoziazioni, ma anche su quale pena e penalità vogliamo in una democrazia, che Stato desideriamo, e fino a che punto la sua difesa simbolica può o debba prevalere sugli altri beni giuridici, non ultimo quello della vita umana, di Cospito, ma anche un po’ di tutti noi.


Ferrajoli, Luigi, (1983) Il caso “7 aprile”. Lineamenti di un processo inquisitorio. «Dei delitti e delle pene», n. 1, 1983. pp. 167-206.

Foucault, M. (1975)  Préface, in B. Jackson, Leurs prisons. Autobiographies de prisonniers et

d’ex-détenus américains, Plon, Paris, pp. i-vi.

Foucault (2019) Teorie e istituzioni penali (1971-1972), Feltrinelli, Milano.

Lefebvre  H. (1974), La production de l’espace, Anthropos, Paris.

Lefebvre  H. (1976-78), De l’état, 4 voll, Union Générale d’Éditions, Paris.

Quattro riflessioni


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