di Loris Guzzetti, Ricercatore dell’Osservatorio Città e Trasformazioni Urbane di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli


Il 25 novembre 2022, presso la Sala Della Peruta di Fondazione Feltrinelli in Viale Pasubio 5 a Milano, si è svolto un Workshop dedicato alla Povertà abitativa, organizzato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, nell’ambito delle attività dell’Osservatorio Città e Trasformazioni urbane, in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università degli Studi di Milano Bicocca.

Il testo che segue costituisce una sintesi delle principali riflessioni emerse nel corso del dibattito multidisciplinare sulle questioni legate all’abitare fra importanti attori del mondo accademico e della ricerca, delle imprese e del terzo settore, delle istituzioni locali che hanno preso parte attivamente all’iniziativa.

Il workshop ha visto la partecipazione di: 

  • Giampaolo Nuvolati, Università degli Studi di Milano Bicocca;
  • Luca Talluri, Presidente con deleghe operative di Casa Spa, Firenze;
  • Alessandra Terenzi, Università degli Studi di Milano Bicocca;
  • Maurizio Bergamaschi, Università di Bologna;
  • Alice Boni, Politecnico di Milano;
  • Federico Bottelli, Comitato Quartiere San Siro;
  • Alessandro Coppola, Politecnico di Milano;
  • Valeria Inguaggiato, Cooperativa sociale La Cordata;
  • Monica Bernardi, Università degli Studi di Milano Bicocca
  • Alfredo Mela, Politecnico di Torino;
  • Silvia Mugnano, Università degli Studi di Milano Bicocca;
  • Elisa Omegna, Fondazione Impact Housing;
  • Eleonora Perobelli, Università Bocconi di Milano;
  • Gabriele Rabaiotti, Consigliere del Comune di Milano;
  • Gianna Stefan, Gruppo di ricerca “Vivere da soli a Milano ai tempi del Covid 19”;
  • Sara Travaglini, Società cooperativa Dar=Casa;
  • Chiara Rizzica, Milano Abitare
  • Lidia Tartaroco, Cooperativa sociale La Cordata;
  • Anna Tagliaferri, Politecnico di Milano;
  • Francesco Fortinguerra, Associazione Progetto Persona onlus.

Il fenomeno della povertà si presenta oggi attraverso forme plurime e manifestazioni diversificate, specialmente all’interno dei grandi centri urbani. Si può parlare di povertà intendendo anzitutto le condizioni di carenza materiale che possono affliggere un individuo, strettamente connesse a livelli di reddito insufficienti o comunque non adeguati per assicurargli una dignitosa autonomia economica. Successivamente, si può intendere per povertà la sequela di situazioni di fragilità, di esclusione sociale o di mancata integrazione degli individui all’interno di una precisa comunità.

Ancora, si qualificano come forme di povertà le circostanze caratterizzate per lo più da un basso livello di alfabetizzazione/istruzione, da precarietà lavorativa e abitativa, dal mancato accesso ad una alimentazione sicura, regolare e sana, nonché, più in generale, dall’impossibilità da parte di famiglie o singoli individui di procurarsi un paniere minimo di beni e servizi energetici, circostanza in crescita e al centro del dibattito attuale. 

Appare allora sempre più appropriato concepire la povertà come fenomeno multi-dimensionale, in grado cioè di annoverare più cause e fattori che, più nel dettaglio, intercettano sia le difficoltà reali per la soddisfazione dei bisogni base degli individui e dei nuclei famigliari, sia le svariate forme di segregazione, di discriminazione e di esclusione sociale. A questi si aggiungono poi i limiti della politica nell’affrontare l’isolamento spaziale e relazionale che può caratterizzare interi quartieri e gruppi di persone e, più in generale, nell’offrire risposte adeguate, ossia politiche pubbliche lungimiranti e portatrici di soluzioni strutturali al problema della povertà.

La povertà resta del resto una questione prioritaria: il Poverty Watch Report 2021, elaborato da EAPN – European Anti Poverty Network, stima che le persone a rischio povertà in UE sono pari al 21,7% della popolazione complessiva, ovvero 95.4 milioni di persone. In Italia, il dato addirittura aumenta rispetto alla media europea, con un valore pari al 24,6%.

Comprendere meglio la povertà che colpisce numerose fasce della popolazione all’interno di diverse realtà urbane (e non) richiede un approfondimento delle carenze che contraddistinguono gli attuali modelli di politiche pubbliche, nonché la ricerca costante di proposte e soluzioni anche innovative per contrastare il più possibile la sua diffusione.

Fra le molte lenti attraverso cui si può analizzare la povertà, si intende qui focalizzare l’attenzione sulla “povertà abitativa”. Essa colpisce numerosi centri urbani e costituisce una diretta conseguenza delle grandi trasformazioni sociali ed economiche, così come dei processi di mutamento più circoscritti agli spazi di convivenza e alle fasi di sviluppo tipicamente cittadini. 

 


Le forme della povertà: la povertà abitativa


Secondo un recente studio della Banca mondiale, nel 2020 più di 70 milioni di persone a livello globale sono finite in condizioni di povertà estrema. La povertà abitativa ne costituisce una forma, evidente soprattutto nelle grandi città.

Il Rapporto Povertà 2022 di Caritas conferma la criticità della questione casa in Italia, registrando che le persone senza dimora incontrate nel 2021 sono state complessivamente 23.976, ovvero il 16,2% degli assistiti, con un incremento di +1.500 persone rispetto alle rilevazioni del 2020. Inoltre, la vulnerabilità legata all’abitazione ha riguardato il 20,9% degli utenti Caritas e, fra questi, il 43,5% è risultato totalmente privo di una abitazione. Sono soprattutto nuclei familiari a basso reddito, lavoratori a termine, persone con morosità, anziani, giovani e immigrati a veder compromessa la propria qualità della vita, in mancanza di una prospettiva certa legata alla casa.


Un concetto ampio di “abitare”


Parlare di povertà abitativa solo in termini di problemi di accessibilità o di possesso del bene “casa” è improprio o, comunque, non esaustivo. La povertà abitativa è una forma di povertà che deriva infatti anche da carenze e/o proprietà negative che contraddistinguono l’ambiente in cui l’abitazione fisica è inserita. Il contesto conta, non è una semplice cornice. Emerge pertanto la necessità di affrontare il problema della povertà abitativa accompagnati dalla consapevolezza di una interpretazione ampia del concetto di “abitare”. 


Da qui, derivano l’opportunità e la necessità di definire politiche pubbliche che vadano oltre la “semplice” assegnazione e/o la nuova costruzione di alloggi pubblici, ossia fondate su un approccio esclusivamente “fisico”, ovvero infrastrutturale. Vivere in un quartiere dove risulta agevole la costruzione di legami sociali solidi e affabili, dove disporre della possibilità di beneficiare di servizi pubblici efficienti e plurimi e, ancora, dove poter incontrare le condizioni più favorevoli per la realizzazione piena dell’individuo in quanto parte integrante di una più ampia comunità, è la sfida che dovrebbe accompagnare ogni intervento pubblico che si pone come obiettivo il contrasto della povertà legata all’abitare. 

Più nel dettaglio, acquista sempre più valore l’idea di rivedere l’approccio fino ad ora seguito per affrontare la povertà abitativa, facendo prevalere una “prospettiva sociale”. Certamente vi sono le cause infrastrutturali, cioè quelle legate all’offerta di alloggi pubblici adeguati, quindi in numero sufficiente e in condizioni dignitose che possono garantire un tetto sicuro e durevole. Tuttavia, altre cause e variabili producono impatti negativi direttamente sulla questione abitativa, generando povertà. 

È il caso, ad esempio, delle dinamiche che caratterizzano attualmente il mercato del lavoro: livello basso dei salari rispetto al costo della vita; situazioni di esclusione prolungata dal mondo del lavoro, specie dei soggetti con vulnerabilità; episodi di sottoccupazione; scarsa qualità dei lavori disponibili, specie per i più giovani; accesso lento e complicato a posti di lavoro decenti e tali da permettere una stabilità futura. Oppure, è il caso delle variabili connesse al mercato immobiliare: aumento dei canoni di affitto; costo elevato degli immobili, insostenibili specialmente per le giovani generazioni; episodi di gentrification che cambiano radicalmente la composizione urbanistica e sociale di interi quartieri; stato di degrado di alcuni quartieri cittadini, tale da non assicurare soluzioni abitative e residenziali decorose, stabili e fruttuose. 

Per affrontare efficacemente la questione abitativa occorre andare insomma oltre, cioè favorendo una analisi integrata che considera anche i fattori “di sistema”, ossia l’ambiente (fisico e relazionale) nel quale la casa è inserita e dove può svilupparsi una buona qualità della vita dell’individuo nel suo complesso. Pare oggi assente l’idea del “buon abitare”, intesa come una prospettiva che non contempli esclusivamente i modelli di progettazione urbanistica, quindi le soluzioni infrastrutturali del problema, bensì promuova una visione anche culturale e sociale degli interventi pubblici in tema di abitare e che intenda fare della “casa” un servizio pubblico vero e proprio, che sappia altresì fare rete con istituzioni e attori del territorio che possono dare un notevole contributo sulla questione casa attraverso proposte innovative ed efficaci. Diventa quindi interessante la proposta di interpretare la casa come servizio alla persona, più attento cioè alle fragilità personali e di contesto, affiancandolo alla ricerca di lavoro stabile, di reddito dignitoso e di una qualità della vita tout court.

L’edilizia residenziale pubblica (ERP) resta certamente la prima risposta, in termini di servizio pubblico, alla povertà abitativa. Tuttavia, se questo servizio continua ad essere offerto ed inteso secondo un approccio solo infrastrutturale, ossia legato per lo più alla presenza o meno di immobili pubblici da assegnare a chi non è proprietario di un’abitazione, che percepisce un reddito inferiori a determinati limiti imposti dalla legge e che possiede determinati requisiti, il rischio potrebbe essere l’ottenimento di un’azione monca, ovvero l’adozione di interventi insufficienti. A tal proposito, il sistema di welfare legato all’abitare si è fino ad oggi dimostrato poco sociale e manchevole di una visione più comprensiva dell’ambiente circostante e di programmi di medio/lungo periodo e che sappiano accompagnare la persona verso la soluzione del problema abitativo.


Ascolta l’audio

Giampaolo Nuvolati, Professore Sociologia dell’Ambiente e del Territorio, Università degli Studi di Milano Bicocca


Definire un obiettivo sociale


Spesso, l’approccio adottato per affrontare la questione abitativa pecca di una definizione poco puntuale dell’obiettivo sociale su cui concentrare sforzi e risorse. L’intervento pubblico per la casa si è negli anni quasi disperso in svariati interventi in favore di chi vuole diventare proprietario di un immobile e non tanto in favore di chi una casa non ce l’ha o non può averla, ad esempio gli homeless.

Nell’agenda politica sono ampiamente presenti gli interventi di edilizia convenzionata in proprietà, prevedendo in sostanza una riduzione dei costi delle aree per la costruzione di case in proprietà, rispetto a quelli normalmente definiti dal mercato immobiliare. Ad esempio, Regione Lombardia (ma anche altre Regioni italiane) ha previsto il fondo “Mutuo prima casa” quale forma di supporto con risorse pubbliche per l’acquisto di una casa da parte di giovani con redditi contenuti. 

Sarebbe scorretto affermare che la questione casa sia dimenticata dai vari livelli di governo: in una città come Milano, ad esempio, trova spazio l’edilizia popolare con la previsione di stanziamenti in termini di risorse anche ingenti. Tuttavia, si fa riferimento “solo” a interventi di convenzionamento pubblico sulla proprietà, che appare inappropriato ed escludente se riferito a chi versa in situazioni di fragilità grave. L’intervento pubblico ha avuto fino ad ora una impostazione strettamente legata alla proprietà, non considerando ed escludendo a priori chi non è in grado di stare nel mercato della proprietà. A chi deve indirizzarsi l’intervento pubblico per la casa? E quali politiche di conseguenza?

Emerge quindi un problema di definizione dell’obiettivo, di capacità progettuale nell’offrire risposte adeguate alle situazioni di povertà abitativa strettamente legata alla condizione sociale delle persone più deboli. In favore di queste categorie, diventa allora necessario indirizzare le politiche pubbliche sulla casa verso una maggior redistribuzione del patrimonio esistente e favorire la riqualificazione di quartieri popolari problematici con una prospettiva innovativa ed integrativa di diverse dimensioni (culturale e commerciale ad esempio), per l’appunto più ampia.

Il rischio è ritrovarsi con un sistema di risposte alla questione abitativa zoppo, non solo in termini di inadeguatezza infrastrutturale (casa come elemento fisico), bensì anche intesa come mancata offerta di un servizio sociale.


La realtà di San Siro a Milano


Un’attenzione particolare può essere riservata al quartiere milanese di San Siro, in quanto presenta una solida componente di edilizia residenziale pubblica marginalizzata, colpita da mancanze gravi di servizi di integrazione sociale e da episodi che rendono complicata la questione dell’abitare. 

Il quartiere popolare di San Siro è la rappresentazione tipo di una “città duale”, ovvero uno spazio urbano in cui è facile intravedere la contrapposizione netta fra la città benestante e la città povera, con sacche di marginalizzazione sociale, abbandono e degrado. Nonostante si faccia riferimento ad una zona molto centrale di Milano e, negli ultimi anni, soggetta a episodi di gentrification con la previsione e successiva realizzazione di insediamenti abitativi e attrazioni urbane all’avanguardia, il “quadrilatero di San Siro”, ossia il complesso di  circa 124 caseggiati e 6000 alloggi popolari, resta avulso dal contesto circostante e dagli interventi di riqualificazione e rigenerazione urbana che lo interessano.

Emergono inoltre ulteriori aspetti: situazioni di marginalità e fragilità sociali che generano una domanda di partecipazione e coinvolgimento maggiore nella definizione delle politiche pubbliche per il quartiere e che riportano all’attenzione contenuti identitari e di integrazione sociale legati proprio all’abitare.

Si incontra a San Siro in maniera evidente anche il tema della precarietà, con particolare riferimento alla componente straniera. La casa per le persone con background migratorio è un “bisogno sommerso”, nel senso che la questione casa è quasi totalmente avulsa dai sistemi di accoglienza e dalle politiche migratorie e, pertanto, sfugge alle procedure regolari di accoglienza ed integrazione, cedendo a un mercato immobiliare irregolare e di cui non c’è piena consapevolezza. Unita all’assenza di una condizione lavorativa stabile (precarietà del lavoro), la mancanza di una soluzione abitativa duratura rappresenta per le persone straniere un notevole ostacolo anche per accedere ai servizi pubblici di base. Disporre di una abitazione stabile comporta la possibilità di godere di un luogo di residenza e/o domicilio ufficiali, che molto spesso sono considerati requisiti obbligatori per poter accedere ad agevolazioni, contributi e a servizi sociali convenzionati. Al luogo dichiarato di residenza sono collegati importantissimi risvolti legali in termini di diritti, tra i quali figurano l’accesso ai servizi demografici (richiesta e ricezione di certificati anagrafici) ed elettorali (iscrizione alla lista) del Comune di residenza oppure l’adempimento di tutte le formalità legate alla celebrazione del matrimonio o ancora la possibilità di scegliere e avere un medico di famiglia di riferimento.

Si registrano ritardi e inadeguatezza nelle risposte istituzionali: mancano, infatti, progetti di inclusione e di dialogo interculturale di medio/lungo periodo che rischiano di non affrontare adeguatamente il rapido mutamento della composizione sociale del quartiere e di non consentire un inserimento pieno dei singoli all’interno della vita sociale del quartiere, vista la concentrazione di ben 85 nazionalità differenti. Negli anni, l’assenza di una governance coerente volta alla promozione del valore sociale dell’area e tesa invece alla progressiva privatizzazione degli immobili (piano di vendite promosse da Aler) non ha promosso una riqualificazione del patrimonio residenziale pubblico esistente. La generalizzata percezione di abbandono da parte delle Istituzioni è aumentata e ha favorito ulteriori elementi di criticità, quali sfiducia, destabilizzazione psicologica e soprattutto illegalità.

Buona parte della popolazione straniera e della popolazione già insediata nel quartiere cade facilmente vittima dei fenomeni di caporalato legato all’abitare messe in atto da parte di vere e proprie organizzazioni criminali che gestiscono il racket delle abitazioni, così come dei processi di sub-affitto irregolari che favoriscono il diffondersi di episodi di abusivismo e di occupazione irregolare di immobili pubblici (fino al 21% degli alloggi ERP Aler).

Con riferimento alla popolazione straniera, inoltre, si acuisce negativamente la sfida per sviluppare un senso di appartenenza all’ambiente in cui risiedono: precarietà abitativa e lavorativa comportano una continua mobilità, impedendo quindi di intrattenere legami sociali e territoriali costanti fondati sulla condivisione di valori comuni e che promuovano un processo di identificazione personale con il quartiere.

 

Ascolta l’audio

Alessandra Terenzi, Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca


PNRR e Housing-first: opportunità o occasione mancata?


Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), con la Missione 5 (1.3), prevede una linea di finanziamento importante connessa alla questione dell’abitare, ma contraddistinta da un elemento di criticità significativa: il carattere temporaneo e generalizzato degli interventi. Ciò contrasta nettamente con la logica di accoglienza sottesa al modello di Housing-first che prevede la previsione di percorsi legati alla persona e di medio-lungo termine nell’offrire una soluzione abitativa specialmente per i senza dimora. Questo approccio tipico di Housing-first è stato recepito in Italia in maniera diffusa dal 2015 e, specialmente a livello locale, ha permesso l’accoglienza degli homeless, migliorandone molto le condizioni di vita.

L’impianto del PNRR in relazione alla casa è però fondato su un approccio che rischia di perdere nuovamente la centralità della persona. Non coglie il primo dei problemi, ossia la perdurante debolezza del welfare abitativo e la necessità di valorizzare la dimensione più strutturale e comprensiva dei bisogni sociali del problema, come vorrebbe invece il modello di Housing-first.

Inoltre, il PNRR prevede solo finanziamenti per interventi di edilizia residenziale pubblica, limitando quindi, ancora una volta, il campo di azione e l’esigenza di disporre di una prospettiva sociale complessiva.


Ascolta l’audio

Maurizio Bergamaschi, Professore Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia, Università di Bologna