La gestione dei flussi migratori che coinvolgono e attraversano l’Italia è diventata negli ultimi 20 anni un tema centrale dell’agenda delle amministrazioni locali e nazionali ed è un cantiere in continua trasformazione.
Un cantiere che ci chiede di riflettere insieme sull’importanza di un modello nazionale di accoglienza e inclusione sociale, capace di promuovere il passaggio da una logica assistenziale a un approccio di investimento sociale, di empowerment delle persone, per la costruzione di percorsi di realizzazione personale che portino a compimento le parabole di vita di chi arriva in Italia – indipendentemente dalle loro storie pregresse – e allo stesso tempo rappresentino una creazione di risorse e di ricchezza per i territori, spesso rivitalizzando zone del Paese condannate al declino dall’immigrazione interna dei giovani in cerca di lavoro verso le grandi città italiane ed estere.
I volontari e gli operatori della diaconia Valdese di Torre Pellice raccontano la loro visione di accoglienza
Ma per riflettere sul futuro dell’accoglienza in Italia è necessario guardarsi indietro e ricostruire le fasi con cui un Paese storicamente di emigrazione come l’Italia si è trasformato in pochi decenni in una meta (finale o di passaggio) di immigrazione.
Questo è il risultato di una crescente sensibilità e polarizzazione dell’opinione pubblica che ha preso avvio dal 1989, con la caduta del Muro di Berlino, ma è diventata sempre più evidente con l’arrivo dei primi profughi dall’ex Jugoslavia in pieno conflitto. In realtà, anche prima della disgregazione dell’Unione sovietica l’Italia aveva già avuto contatti con la realtà dell’immigrazione, per esempio con “i migranti provenienti dai territori ex colonie italiane in fase di decolonizzazione, le lavoratrici del settore domestico, i primi gruppi di lavoratori reclutati all’estero, come i tunisini che già negli anni sessanta vengono chiamati a lavorare in Sicilia”, come ricorda Michele Colucci del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di studi sul Mediterraneo.
Ma è appunto dai primi anni Novanta che in Italia e in tutta l’Europa occidentale comincia a crescere il fenomeno dell’immigrazione. Nel nostro Paese, stando al censimento del 1991 i cittadini stranieri residenti sono circa 400mila, dieci anni dopo salgono a circa 1,3 milioni e nel 2011 sono 4 milioni.
Un excursus sugli ultimi 30 anni di crisi e flussi migratori della ricercatrice di Fondazione Feltrinelli Ludovica Taurisano
In contemporanea con la crescita della popolazione straniera residente, ogni governo che ha guidato il Paese negli ultimi decenni ha lasciato la sua impronta sul tema dell’asilo e dell’accoglienza. La legge Martelli del 1990 ha lasciato il passo nel 1998 alla Turco Napolitano. Intanto, nel 1997 anche in Italia entra in vigore la Convenzione di Dublino, il trattato internazionale stipulato dagli stati membri dell’Unione europea per definire il diritto d’asilo e i meccanismi di esame delle domande di protezione internazionale. Sfide come la gestione dei profughi delle guerre nell’ex Jugoslavia e in Somalia hanno poi convinto enti locali, ministero dell’Interno e Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati a dare vita nel 2001 al Piano nazionale asilo.
L’anno successivo, la legge Bossi Fini del governo Berlusconi decreta la nascita del sistema Sprar, con cui le politiche di accoglienza vengono centralizzate in maniera più decisa, ridimensionando il ruolo degli enti locali in un’ottica di pianificazione a livello nazionale.
Al momento, il sistema di accoglienza in Italia è strutturato su due livelli che hanno ridato centralità al ruolo svolto dagli enti locali nell’accoglienza e integrazione. Abbiamo così la prima accoglienza – con hotspot e centri di prima accoglienza – e la seconda accoglienza. La seconda accoglienza è suddivisa tra il SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) – successore del SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) – e i CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria.
Dopo una prima permanenza negli hotspot di Lampedusa, Pozzallo, Messina e Taranto, i richiedenti asilo passano nel circuito della seconda accoglienza, ossia il SAI (Sistema di accoglienza e integrazione), coordinato dal ministero dell’Interno in collaborazione con l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Sono infatti i singoli enti locali che scelgono di aderire al SAI facendo domanda di finanziamento attraverso un bando pubblico sempre aperto. A domanda accettata, l’ente locale riceve un finanziamento triennale per attivare un progetto di accoglienza sul proprio territorio. Successivamente, l’ente pubblico impiega le risorse per coinvolgere un ente gestore, che deve essere un ente non profit.
Nel giugno 2022, 719 enti locali hanno progetti SAI attivi, il 10% in più rispetto al 2021. Si tratta di 847 progetti, in aumento rispetto ai 760 del 2021. Questo si traduce in 39mila posti disponibili nel sistema SAI, 9mila in più rispetto all’anno precedente. Numeri che racchiudono migliaia di storie uniche, di persone o intere famiglie costrette a lasciare il Paese di origine per trovare rifugio, sicurezza o un futuro diverso per loro stessi e i loro figli.
Il rapporto con il sistema SAI nelle parole dei suoi ospiti
Sicuramente su questo aumento hanno avuto un impatto le recenti crisi in Afghanistan, con il ritorno al potere dei Talebani, e l’invasione russa dell’Ucraina. Crisi internazionali che hanno reso necessario un rafforzamento del sistema SAI e delle politiche di asilo dell’Unione europea, considerando che nel periodo iniziale della guerra in Ucraina entravano in Europa più di 100mila profughi al giorno. Proprio la crisi in Ucraina ha messo in luce il doppio standard dell’opinione pubblica europea quando si tratta di accoglienza dei richiedenti asilo, come sottolinea la giornalista Eleonora Camilli.
Il SAI cerca di recuperare l’ottica dell’integrazione tanto dei richiedenti asilo che dei titolari di protezione. Secondo l’ultimo Rapporto annuale SIPROIMI-SAI, delle oltre 37mila persone accolte nel sistema nel 2020, i richiedenti asilo sono il 25,7%, contro il 58% del 2015 e il 47% del 2016. Il 62,5% dei beneficiari sono invece titolari di una forma di protezione: 27% di rifugiati, 18,7% di protezione sussidiaria, 9,3% di permessi per casi speciali e 5,4% di protezione umanitaria. I minori stranieri non accompagnati rappresentano invece il 12% dei beneficiari. Interessante è anche il dato anagrafico: il 94% dei beneficiari ha meno di 40 anni, il 61% non ha compiuto 25 anni.
In un Paese che affronta un’emergenza demografica sempre più grave, l’arrivo di decine di migliaia di giovani – con il loro carico di energia e idee – non può quindi diventare un’occasione persa. Oltre al macrofenomeno, dobbiamo ritrovare il coraggio di guardare le storie individuali e il loro carico di significato. Decine di migliaia di persone arrivate in Italia negli ultimi decenni sono ora elementi fondamentali del loro nucleo sociale e cittadino di riferimento, che spesso restituiscono con impegno moltiplicato ciò che hanno ricevuto nelle prime fasi di accoglienza.
La testimonianza di Ibrahim Jayte, mediatore culturale e linguistico
Il tema delle sfide di cittadinanza, ovvero quali diritti, relazioni, risorse, opportunità, pratiche possono risultare fondative di nuove forme di appartenenza e convivenza nei territori in cui le persone vengono accolte, parte dalla consapevolezza di come il sistema di accoglienza e i servizi correlati possano rappresentare un’esperienza di innovazione che si amplia all’intero sistema di welfare del nostro Paese.