Secondo un sondaggio dello scorso anno, a cui hanno partecipato oltre 18mila persone in 27 Paesi, l’84% dei rispondenti ha dichiarato di usare o di aver usato una dating app, tra cui Tinder, per conoscere persone nuove e trovare un partner. È quindi altamente probabile che, come il sottoscritto, le abbiate usate anche voi e che dopo la scintilla iniziale l’interesse si disperde una volta che ci si incontra dal vivo. Le app di incontri, come molte altre di successo, utilizzano un algoritmo per mostrare risultati quanto più consoni all’utente. Se è dunque facile ordinare del cibo a casa, prenotare una corsa o un volo, perché è difficile progettare un algoritmo per trovare l’amore?
Per qualcuno è la premessa a essere sbagliata. Erica da qualche mese è uscita da una lunga relazione e non è ancora sicura di volersi cimentare in un’altra:
«Non penso sia l’approccio giusto – spiega -. Non escludo che si possa trovare l’amore così ma se volessi cercare un rapporto duraturo non userei le app di incontri».
L’etichetta popolare assegnata a questo tipo di applicazioni che le dipinge come mero strumento per appagare l’appetito sessuale si scontra dunque con quanto dichiara chi le utilizza. Erica appartiene al 15% di donne che usano questi strumenti per trovare un partner sessuale, contro il 37% degli uomini che li utilizzano per lo stesso motivo. Numeri che smentiscono il credo popolare e che vengono confermati da Giovanna Verde, sessuologa operante a Torino: «Direi che praticamente ne fanno uso tutti i miei pazienti, soprattutto sotto i 30 anni». La dottoressa precisa che nel suo studio entrano perlopiù persone che hanno difficoltà a trovare un partner, equamente distribuiti tra donne e uomini: «Quello che vogliono entrambi, alla fine, è la stessa cosa: stare in coppia, stare bene e avere una vita sessuale soddisfacente – aggiunge – e in questo frangente le app di incontri non sono altro che uno strumento aggiuntivo nel panorama di possibilità disponibili per conoscere un potenziale partner».
Sesso insoddisfacente, aspettative e il porno come modello fuorviante
«La quasi totalità dei miei pazienti viene da me perché ha difficoltà a trovare un partner sessuale con cui costruire qualcosa, in particolare sopra i 25 anni di età».
Giovanna Verde, sessuologa operante a Torino, visita persone prevalentemente sotto i 30 anni. Le problematiche più frequenti, precisa, sono eiaculazione precoce e ansia da prestazione (disfunzione erettile) per gli uomini e difficoltà a raggiungere l’orgasmo e scarsa lubrificazione per le donne. Le ragioni sono di tipo psicogeno (disturbi o comportamenti che esprimono una reazione a esperienze particolarmente significative sul piano emotivo-affettivo) e socio culturale. Vale per le donne quanto per gli uomini.
«Le ragazze crescono in un ecosistema culturale in cui l’educazione alla sessualità è offerta da internet e dalla pornografia, vanno in crisi perché è preponderante il concentto secondo cui la sessualità è esclusivamente vaginale, ossia devono raggiungere l’orgasmo tramite penetrazione mentre viene totalmente ignorato un organo importantissimo, la clitoride». Una delle domande che Verde si sente spesso rivolgere dalle donne è: «Se quando mi masturbo lo faccio stimolando la clitoride, come faccio a raggiungere l’orgasmo durante un rapporto sessuale di tipo penetrativo?».
Dai pazienti maschi, spiega a IrpiMedia, emerge ancora molto di frequente la necessità di avere una vita sessuale ricca, di poter misurare il proprio successo e l’apprezzamento all’interno della cerchia di loro pari attraverso la frequenza dei rapporti. «Questo contribuisce all’aumento della loro ansia, che si traduce in disfunzioni di tipo fisiologico durante il rapporto stesso». Il nodo più grande da sciogliere è ancora una volta dovuto alla marcata fruizione di materiale pornografico. Secondo un report del 2021 di PornHub – piattaforma che appartiene al gruppo MindGeek il quale controlla anche YouPorn, Tube8, Xtube, SexTube e RedTube – l’Italia è il quinto Paese per traffico sul sito, dietro solo a Stati Uniti, Regno Unito, Giappone e Francia.
«I modelli offerti sono la dimensione del pene e la capacità di un lungo rapporto sessuale», spiega Verde, i quali «danno un’idea della sessualità molto sbagliata». Si convincono che emulando quanto più possibile gli attori siano in grado di appagare la propria autostima, da un lato, e dall’altro soddisfare la propria partner mentre l’effetto ottenuto è l’esatto contrario.
Nell’indagine svolta da Sapio Research, società di ricerca inglese nel settore B2B, quasi la metà del campione intervistato afferma di utilizzare le dating app per conoscere nuove persone, che risulta essere di gran lunga la ragione più ricorrente. È infatti comune a chi è “fuori sede” utilizzarle per entrare in contatto con persone attraverso cui costruire una nuova rete di amicizie. Vale per chi si trasferisce in una nuova città per lavoro, meno invece per i più giovani i quali possono contare sulla “prossimità” e le occasioni che l’università offre loro. Ma vale anche per chi, come Serena, ricercatrice di 27 anni, il contesto dove è cresciuta comincia a stare stretto e «vuoi oltrepassare quella linea di confine geografico che delimita il quartiere dove vivi e andare oltre la rete di conoscenze a cui sei abituata».
Lo slogan tipico di questo tipo di applicazioni, la famigerata ricerca dell’amore, coincide con le aspettative di chi le usa: il secondo motivo più ricorrente (41%) dell’utilizzo è infatti la ricerca di una relazione stabile. Ma in questo contesto, la distanza tra virtuale e reale è decisamente marcata. Solo il 37% di questi utenti afferma infatti di aver avuto successo. Ovvero, nonostante l’amore sia uno degli obiettivi preferiti da perseguire rimane quello più difficile da raggiungere.
Tinder, l’amore sul palmo della mano
La celebre app di incontri ha rivoluzionato il concetto di match-making, offrendo sul palmo della mano la possibilità di incontrare persone altrimenti irraggiungibili attraverso una normale cerchia di amicizie. Prima del suo arrivo sul mercato delle app, gran parte dei siti web concorrenti prevedevano lunghe sedute davanti al computer dedicate alla scrittura e alla lettura delle biografie degli utenti. Tinder può essere utilizzato sul momento, con sessioni di pochi secondi. La modalità di ingaggio offerta riassume bene due delle principali osservazioni che i nostri intervistati hanno esposto. Ha indubbiamente incrementato le possibilità di incontri ma allo stesso tempo incoraggia un approccio «più superficiale verso l’altro». Chiara aveva 22 anni quando ha usato Tinder per la prima volta: «La prima cosa che mi ha colpita è stato il numero di uomini disponibili nella mia zona, veramente infiniti, non ero abituata a così tanta scelta». La curiosità è stata presto soppiantata dalla monotonia. «All’inizio leggevo le loro bio, mi prendevo del tempo per leggere i loro interessi e cosa avessero da dire su se stessi… ma dopo un po’ mi sono ritrovata a sfogliare a destra e a sinistra i loro profili in base a quanto la loro foto catturasse il mio sguardo, quasi meccanicamente». Tinder ha dichiarato di aver facilitato otto miliardi di interazioni, senza tuttavia specificare se si tratta di comunicazioni digitali, incontri dal vivo o entrambi.
Quanto successo hai avuto nel perseguire questi obiettivi con le app di incontri?
Tutto ruota intorno al logaritmo. Assegna all’utente un livello di attrattività, il quale determina la visibilità di quel profilo sull’applicazione. Maggiori sono i like che riceve più alta Serena l’attrattività di quel profilo. Se i like arrivano da profili popolari, il proprio profilo guadagna punti e sale nella classifica di quelli maggiormente visibili. Da qualche anno l’utente può inoltre indicare determinati interessi e hobby che saranno visibili agli altri, offrendo al logaritmo ulteriori dati da “masticare” per offrire match più o meno affini. Mediamente, una donna apprezza il profilo che vede il 14% delle volte, mentre l’uomo mette like al 46% dei candidati.
La sensazione palesata da chi usa questo tipo di applicazioni è quella di essere davanti a una catena di montaggio, dove la merce scorre davanti agli occhi senza avere il tempo di afferrarla. Una ripetitività, afferma Serena, che sdogana la mancanza di empatia:
«È come se le persone si sentissero più disinibite, senza pensare alla ripercussioni di quello che scrivono». Ma non solo l’ingaggio di una comunicazione, anche l’eventuale congedo risulta spesso disumanizzato. «Se una volta che ci si incontra, uno dei due decide di non proseguire la frequentazione, spesso manca quell’empatia che dovrebbe spingere a comunicare la chiusura del rapporto e invece quella persona semplicemente sparisce – prosegue Serena – manca quello scrupolo di pensare come possa reagire l’altra/o, cosa che in un rapporto nato dal vivo di solito non succede».
Una maggiore disinibizione, secondo la dottoressa Verde, è insita nella comunicazione online: «Chattando, viene a mancare il linguaggio del corpo, quindi tende a prevalere – spiega – un approccio più esplicito in grado di compensare la mancanza di un sistema di sensazioni sensoriali che dal vivo è automatico». Per comunicare a una persona chi siamo e cosa vogliamo, dunque, si tende a osare maggiormente. «Di persona, il nostro sistema neurofisiologico è in grado di intercettare cosa l’altro sta provando e di intuire l’immagine che l’altro ha di noi», prosegue Verde.
Il punto di osservazione di Serena è particolare. In qualità di ricercatrice nel settore dell’intelligenza artificiale, nel 2018 aveva ricevuto il compito di analizzare il funzionamento di Tinder: «Dovevo capirne il successo, e contribuire al rilancio di una campagna di comunicazione in un anno in cui l’applicazione viveva una fase di grande popolarità». Oggi, dopo averne fatto un uso anche personale, il suo parere è diverso: «Dopo un anno di utilizzo mi sono accorta che non viene usata per i soli scopi che pensavamo allora, ossia prevalentemente incontri occasionali, bensì soprattutto per conoscersi o avviare una relazione sentimentale, oltre il mero aspetto sessuale».
Le dating app tra società e linguaggio
Dopo un decennio dall’esordio delle dating app sui nostri cellulari, la promessa alla base di questi strumenti secondo cui l’amore può essere facilitato dalla tecnologia è stata mantenuta? È la domanda che si è posto Arthur Brooks, professore di sociologia all’università di Harvard, all’interno di un podcast del The Atlantic lo scorso ottobre. Uno dei suoi ospiti rifletteva su come oggi i dati ci dicano che meno persone si sposano, le coppie fanno meno figli e meno rapporti sessuali. Eppure le possibilità di interazione si sono ampliate, con una pletora di opzioni inimmaginabili fino a vent’anni fa.
«I miei studenti – riflette il professor Brooks – mi dicono quanto buffo sia il fatto che possono ormai ordinare qualsiasi cosa online, che la tecnologia offre loro enormi opportunità, anche dal punto di vista delle interazioni umane e allo stesso tempo, confessano, le loro vite sentimentali sono asciutte». Ma c’è spesso un abisso tra ciò che la tecnologia è in grado di offrirci e quello di cui abbiamo bisogno realmente. Questo tipo di app e i logaritmi che le animano prediligono associare due profili che mostrano interessi simili, scartando le differenze. Così, se Serena ha la lettura tra i suoi hobby è più probabile che le verrà mostrato il profilo di Fulvio, divoratore di libri, piuttosto che quello di Claudio, amante del culto di sé e degli sport estremi. «Mi preoccupa il fatto che molte di queste applicazioni tendono a favorire potenziali partner in base ai tratti in comune rispetto a quelli complementari». È la medesima riflessione che arriva da Domenico, 27 anni, abruzzese ma romano d’adozione: «Io ho avuto una relazione di tre anni, ci siamo lasciati pochi mesi fa ma sono pronto a scommettere che non avrei messo like alla mia ragazza se l’avessi vista su Tinder prima ancora di conoscerla, eravamo troppo diversi».
L’amore paga: diffusione e fatturati delle app di incontri
Con un’utenza stimata vicino ai 350 milioni di persone, il settore delle applicazioni di incontri online è in crescita continua sia per numero di utenti sia per fatturato. L’amore, o l’incontro casuale, è diventato un bene di consumo e vale 5,6 miliardi di dollari. La tendenza degli ultimi anni, inoltre, mostra come sempre più persone siano disposte a pagare per agevolare la possibilità di incontri.
A farla da padrone è Match Group – società che controlla oltre 40 servizi di dating online, tra cui Tinder, Match.com, Hinge, OkCupid e PlentyOfFish – che nel 2021 ha registrato un fatturato di circa tre miliardi di dollari, pari a circa il 60% dell’intero settore. Non è un monopolio ma poco ci manca. A trainare il colosso texano è Tinder. Nello stesso anno la celebre app ha infatti segnato 1,7 miliardi di euro alla voce ricavi diretti. La crescita non mostra segni di cedimento dal 2018, cioè da quando i ricavi per trimestre segnano in media +6% di crescita: l’ultimo, chiuso a settembre di quest’anno, ha portato in cassa 460 milioni di dollari.
Per quanto riguarda l’Italia, tra coloro che usano dating app Tinder è la prima scelta per il 67% degli utenti. Bumble e Facebook Dating, rispettivamente seconda e terza, sono scelte dal 6 e dal 5% degli utenti. Tinder rimane la scelta preferita anche a livello globale. È la più utilizzata anche negli Stati Uniti mentre in Europa il mercato, quanto a diffusione, è guidato da Badoo.
Il successo delle app di incontri è certificato dai numeri. L’intero mercato ha fatturato 5,6 miliardi di dollari nel 2021 e conta oltre 300 milioni di utenti al mondo. Eppure, nonostante la loro popolarità, chi le utilizza deve scontrarsi con non pochi pregiudizi, come quello associato a chi conosce una persona tramite un’app. «Quando è arrivato il momento di presentare il mio compagno, con il quale ci eravamo conosciuti su Tinder, devo ammettere che sono stata a lungo esitante se confidare “come” ci siamo conosciuti», spiega Gabriella. Aggiunge che tra chi non ne ha mai fatto uso c’è la tendenza a giudicare «uno sfigato» se a utilizzarle è un maschio e una «poco di buono» se è invece una donna. «È ora di superare questi preconcetti», dichiara la dottoressa Verde, «io stessa le ho utilizzate e non ne ho fatto mistero né con amici e parenti né tantomeno con i miei pazienti, se usate bene sono un’ottima risorsa».
Il linguaggio è spesso la misura di quanto un fenomeno sia entrato a far parte di una società. E così nel nostro vocabolario hanno trovato posto neologismi in base ai comportamenti assunti durante un’interazione nata o vissuta nella sfera digitale. Il più noto è forse ghosting, ossia sparire e interrompere un rapporto senza offrire spiegazioni; ma anche breadcrumbing, quando vengono offerte “briciole” di attenzione per mantenere il contatto ma senza l’intenzione di incontrarsi; fino a slowfading, l’azione di scomparire gradualmente pur non sbattendo la porta.
«Certo che può essere alienante tutto ciò, ma non è forse così anche nei rapporti dal vivo?», si domanda Giorgio.
La rivoluzione online
Giornalista, 27enne e omosessuale, Giorgio ricorda bene le serate trascorse davanti al computer in cameretta a navigare, di nascosto dai suoi genitori, i predecessori delle omonime app, i siti d’incontri. «Avevo 16 anni e se non eri etero questo era l’unico modo per esplorare la tua sessualità, specie per chi viveva le periferie». Il problema nella vita di adolescente è sempre stato quello di avere una vita sentimentale, mi dice. La sua prima volta è stata frutto di un incontro avviato online, così come le relazioni stabili avute in seguito: tutte scaturite dall’utilizzo di un applicazione piuttosto che un’altra. Giorgio non le demonizza, riconosce che sono impostate per fare soldi sulle proprie insoddisfazioni ma anche che la loro utilità «dipende dalla persona e dagli obiettivi che uno si pone, e se non ti carichi di troppe aspettative prima o poi trovi quello che cerchi». I detrattori sostengono che queste app uccidono la spontaneità, oggettivizzano l’essere umano; i sostenitori ne apprezzano la trasversalità, l’aumento delle possibilità e l’utilizzo per chi si sente troppo fragile o troppo diverso da osare un «ciao» a unə sconosciuto.
Una volta si pensava che questo tipo di piattaforme fossero utilizzate da chi faceva fatica a relazionarsi dal punto di vista sociale ma «oggi non è più così», riflette Verde, e aggiunge che «una delle cose positive di questi strumenti è il fatto che l’utente si trova in un “luogo” in cui sa che le altre persone sono lì per lo stesso motivo, per trovare l’anima gemella, e ciò rimuove quel carico di ansia e insicurezza che molti hanno quando si tratta di approcciare uno sconosciuto o una sconosciuta in un locale o in una discoteca».
Senza questi strumenti, staremmo meglio? «Non saprei, certo è che 20 anni fa le possibilità sarebbero state ridotte al lumicino a meno che non vivessi in centro a Roma o a Milano», continua Giorgio. Il suo è un giudizio neutrale, ammette che idealmente sarebbe meglio fare tutto dal vivo ma che la realtà è un’altra e allora tanto vale imparare a fare buon uso degli strumenti a disposizione. «Se c’è insoddisfazione fa parte di un discorso più ampio – prosegue Giorgio – e comprende l’intero nostro ecosistema digitale ma in fondo le nostre vite, di tutti, sono talmente onlife (altro neologismo, che indica la fusione tra la vita online e quella offline in cui ciascuna dimensione si confonde con l’altra, nda) che la differenza tra il conoscere qualcuno dal vivo o in digitale esiste, certo, ma non da più fastidio».
Chiedo a Giorgio di fare uno sforzo di fantasia e immaginare di avere un fratello adolescente che ne facesse uso, curioso dalla sua reazione.
«Gli spiegherei a cosa stare attenti, a riconoscere i segnali di allarme, le prudenze da prendere quando si esce con uno sconosciuto», spiega, esattamente ciò che farebbe un genitore alla vigilia della prima uscita del proprio figlio. «Non sono strumenti né perfetti né positivi ma nel loro essere strumenti alla lunga riesci a trovare il tuo qualcuno, che si trova nella tua stessa situazione», conclude Giorgio, porgendomi una domanda prima di lasciarci: «Ma il problema è dell’applicazione che ti rende dipendente da questo tipo di interazioni oppure della società in cui viviamo, che limita la libertà di incontrarsi dal vivo, che ti giudica per quello che sei?».
Quale futuro?
Matteo Lisi è post dottorando all’Istituto italiano di Tecnologia. La sua specializzazione è il cosiddetto “tocco sociale”, ovvero quell’azione del tocco dedicata al contatto tra persone come l’abbraccio, la carezza oppure una mano poggiata sulla spalla. Ma non nel mondo reale, bensì nella realtà virtuale. Nello specifico, studia le reazioni del corpo umano all’illusione di venire toccati da un avatar. Negli esperimenti viene mostrato al volontario un corpo virtuale che riflette perfettamente la posizione del suo corpo. Al tocco rivolto all’avatar registra le reazioni del volontario e le osservazioni da loro riportate. «La nostra ricerca mostra che l’esperienza sensoriale dei volontari, il grado di illusione, è maggiore rispetto alla stessa esperienza “vissuta” su un’applicazione tramite lo schermo di uno smartphone o di un desktop», spiega Lisi.
L’approccio è già stato utilizzato nell’industria del porno, con esperienze interattive di modesto successo. Insomma, non è una novità, basti pensare a Second Life o agli ingenti investimenti di Facebook per il metaverso. Matteo Lisi spiega che se si assume una prospettiva in prima persona, l’illusione del tocco si fa più forte e più frequente. È il futuro della app di dating? «Può essere, è difficile prevedere dove proseguirà il mercato ma sicuramente il settore è caratterizzato da una scarsa immersività e credo che integrarla con alcuni aspetti della realtà virtuale possa essere un tentativo interessante», conclude Lisi. L’amministratore delegato di Tinder un anno fa aveva aperto alla possibilità di «confondere i confini tra online e offline» ma sembra che per il momento l’azienda preferisca invogliare gli utenti a incontrarsi dal vivo.