Sin dai suoi esordi, il processo di integrazione comunitario ha creato due fratture all’interno delle sinistre europee. La prima emerse negli anni Cinquanta e Sessanta e contrappose l’anima massimalista e quella riformista. La seconda fece la propria apparizione a partire dagli anni Settanta, dopo l’ingresso del Regno Unito e della Danimarca, e contrappose le sinistre del Sud a quelle del Nord.
Massimalisti e riformisti
La prima frattura ha riguardato la natura stessa dell’integrazione. In Italia e Francia i due partiti comunisti bollarono dall’inizio le istituzioni comunitarie come comitato d’affari del capitalismo monopolistico continentale.
In tutti i Paesi membri, le componenti più radicali della sinistra hanno esercitato una opposizione di principio e “anti-sistema” nei confronti dell’Europa.
Dopo i fatti d’Ungheria, i socialdemocratici abbracciarono il riformismo e iniziarono a guardare con maggior favore all’integrazione. Negli anni Settanta, due esponenti della sinistra, l’olandese Sicco Mansholt e l’inglese Roy Jenkins, divennero Presidenti della Commissione e tinsero di rosso la sua agenda: furono infatti formulate varie proposte riguardo alla dimensione sociale, fra cui un Fondo europeo contro la disoccupazione e un bilancio federale di almeno il 6% del PIL comunitario.
La svolta euro-comunista di Berlinguer e Marchais non bastò a sanare la frattura con i socialdemocratici. Helmut Schmidt era fermamente anti-comunista e per giunta un “Europeista riluttante”. Mitterrand era molto più aperto, ma finì egli stesso sotto il mirino socialdemocratico quando avviò il dialogo con il PCF. “Epinay contro Bad Godesberg” si disse allora: nel 1971 nel congresso di Epinay il Partito socialista francese aveva riconfermato la propria vocazione rivoluzionaria e l’obiettivo di redigere un programma comune con i comunisti. Mentre le sinistre litigavano fra loro, con l’elezione di Margareth Thatcher si apriva la fase del neo-liberismo.
Sud e Nord
La seconda frattura, quella fra sinistra del Nord e sinistra del Sud, ha riguardato soprattutto il ruolo dell’UE nella sfera sociale. I laburisti e soprattutto i socialdemocratici scandinavi erano gelosi del proprio welfare nazionale e non volevano intrusioni da parte di Bruxelles. Significativa la battaglia sulla cittadinanza UE introdotta dal Trattato di Maastricht. Il governo socialista spagnolo, appoggiato dall’Italia e dalla Commissione Delors, premeva per rafforzare i diritti sociali. Il Regno Unito e soprattutto la socialdemocratica Danimarca si opposero fermamente e la proposta spagnola non passò, così come altre proposte in direzione “sociale” di Jacque Delors.
Nella seconda parte degli anni Novanta, in 13 Stati membri su 15 governava la sinistra (Prodi in Italia). Si fece qualche passo in avanti in termini di coordinamento delle politiche occupazionali con il Trattato di Amsterdam. Ma la divergenza di interessi e priorità fra Nord e Sud impedì una svolta più ambiziosa. L’attenzione rimase concentrata sull’avvio dell’Unione monetaria. Come un ventennio prima, la sinistra europea fu incapace di definire una piattaforma comune. Gli anni Novanta si chiusero con un paralizzante intreccio tra le due fratture, emblematicamente rappresentato dalle esplicite tensioni fra il socialista “radicale” Jospin e il socialdemocratico “blairiano” Schroeder. L’allargamento a Est complicò ulteriormente il panorama, portando nella UE sia gli eredi del socialismo ortodosso sia nuovi partiti socialdemocratici sedotti dalle idee della Banca mondiale e del Fondo monetario.
La caduta del muro di Berlino attenuò ma non annullò la frattura tra massimalismo e riformismo, che riapparse con tutta la sua carica anti-sistema per effetto della crisi dell’euro (pensiamo a Podemos in Spagna e soprattutto a Syriza in Grecia).
Durante gli anni 2010, le socialdemocrazie nordiche continuarono a opporsi (quasi sempre con successo) a ogni proposta di irrobustire la dimensione sociale con direttive vincolanti. Lo sviluppo più rilevante di quel decennio – soprattutto durante l’euro-crisi – fu tuttavia la vera e propria conversione “ordoliberale” della socialdemocrazia tedesca e di quella olandese e austriaca, che appoggiarono le politiche di austerità promosse da Berlino, condividendone l’orientamento severo e punitivo nei confronti dei Paesi sud-europei. Nella seconda metà degli anni 2010, il campo della sinistra europea era un agone pervaso di divisioni ideologiche e programmatiche: tra “frugali” e “solidali”, nazionalisti ed europeisti, riformisti e massimalisti – questi ultimi spesso caratterizzati da venature populiste.
Quattro nuove idee
Dietro a questo palcoscenico di frammentazione e conflitto, una pluralità di attori (think tank, intellettuali “pubblici” e ideologi di partito, esperti e studiosi, gruppi di lavoro dentro la Commissione o il Parlamento europeo, organizzazioni della società civile e altri ancora) avevano iniziato a intessere un dialogo per superare i vecchi dogmi e a elaborare idee progressiste condivise su come uscire dalla crisi economica e sociale.
Sarebbe troppo lungo ricostruire le tappe di questo processo, il cui esito è tuttavia chiaramente (per ora) stato una progressiva convergenza tra le diverse anime e dunque il graduale superamento delle fratture. Questa convergenza è stata possibile perché il dialogo dietro le quinte ha, per dir così, sparigliato il gioco mettendo sul tavolo nuove carte, ossia nuove idee e “meta-concetti”: quelle “armi della mente” – come le definisce la tradizione del riformismo pragmatista – che facilitano la ridefinizione e la riaggregazione degli interessi, sia materiali sia ideali e la definizione di nuove opzioni programmatiche.
I meta-concetti principali sono stati quattro. Il primo è quello di investimento sociale, come nuovo “paradigma” per identificare rischi e bisogni della società post-industriale e realizzare politiche sociali innovative. Senza dimenticare l’esigenza di proteggere concretamente le fasce vulnerabili, il nuovo paradigma incoraggia a preparare piuttosto che riparare, a capacitare ex ante piuttosto che sussidiare ex post (il concetto di capacità si richiama esplicitamente alle teoria di Amartya Sen). Di qui l’enfasi sul contrasto alla povertà dei minori su asili e scuole, sulla formazione, le politiche attive per l’impiego, i servizi sociali, la conciliazione e così via.
Il secondo meta-concetto è quello di sostenibilità e transizione ecologica giusta. La sinistra verde è stata la prima a promuovere questo concetto, anch’esso volto a un cambiamento paradigmatico a fronte delle imponenti sfide poste dal cambiamento climatico. Il dialogo dietro le quinte ha esplorato soprattutto le implicazioni della sostenibilità rispetto al mondo del lavoro e del welfare. La decarbonizzazione provocherà un rivolgimento incisivo delle strutture produttive e dei mercati del lavoro e richiederà dunque massicci interventi sia per la compensazione di lavoratori e territori sia per la loro capacitazione per acquisire nuove competenze e sviluppare nuove filiere di attività. La transizione giusta è un paradigma che incoraggia la tutela dei diritti e delle condizioni di vita delle categorie più esposte e al tempo stesso modella gli obiettivi specifici del processo di riconversione.
Il terzo meta concetto – di taglio già chiaramente programmatico – è il Pilastro europeo dei diritti sociali. Si tratta di una metafora volutamente ambigua. È innanzitutto un simbolo dell’impegno Ue sul fronte dei diritti e della loro tutela a livello nazionale (sinistre del Nord) e pan-europeo (sinistre del Sud). La tutela è di natura regolativa, sostenuta dall’impegno politico di tutti i Paesi (sinistre “solidali”), ma senza oneri finanziari per la UE (sinistre “frugali”). L’intervento UE può essere di natura soft (raccomandazioni), hard (direttive) o un misto fra le due (pensiamo alla Garanzia giovani). Anche se dal punto di vista giuridico si tratta solo di una “proclamazione” (avvenuta nel 2017), il Pilastro si presta a essere punto di riferimento per le politiche UE e quelle nazionali, soprattutto se finanziate dalla UE, come quelle dei vari PNRR.
Il quarto meta-concetto è infine quello di Unione sociale europea. L’espressione non connota la costruzione di un welfare centralizzato di natura federale, ma di una cornice unitaria di principi, regole vincolanti e programmi sovranazionali mirati per sorreggere il ri-adattamento dei sistemi nazionali di protezione alle nuove sfide. L’ Unione Sociale Europea non sarebbe un Welfare State europeo, ma un’Unione di welfare state nazionali, con eredità storiche e istituzioni differenti.
Aderendo a questa Unione – e questa è la novità più importante – gli Stati membri si assumerebbero l’impegno a dar vita a forme tangibili di mutua solidarietà in caso di bisogno. Si tratta di una solidarietà basata sul principio della reciprocità intertemporale, la stessa che ispira gli stabilizzatori fiscali di sistemi federali come gli Stati Uniti, il Canada o la stessa Germania. Prendiamo il rischio disoccupazione. In caso di shock asimmetrici uno o più Paesi possono registrare un incremento anomalo di disoccupati, che metterebbe sotto tensione i loro sistemi nazionali di assicurazione. L’Unione sociale europea interverrebbe con propri fondi per ammortizzare questo shock temporaneo, seguendo una logica assicurativa (come effettivamente è stato fatto creando il fondo SURE).
Europa “giusta”: una luce da accendere
Il concetto di Unione sociale europea ha facilitato la convergenza a sinistra sgombrando il tavolo da quelle incomprensioni e pregiudizi che hanno invece sempre accompagnato il concetto di Europa sociale. Ha chiarito una volta e (si spera) per tutte che in un’Europa integrata la protezione sociale (e gli obiettivi normativi sottostanti di “solidarietà” e “giustizia sociale”) hanno tre dimensioni distinte: nazionale, transnazionale e sovranazionale. Queste dimensioni possono potenzialmente entrare in conflitto tra loro, ma lo scontro non è inevitabile, a patto che esse siano adeguatamente riconosciute come tali e deliberatamente riconciliate. In secondo luogo, e di conseguenza, il concetto di Unione sociale si basa sul presupposto – e dunque ribadisce – che la protezione sociale deve oggi ri-organizzarsi in una architettura multilivello: non necessariamente gerarchica, ma capace di promuovere collegamenti tra le varie istituzioni e le varie arene di protezione sociale, per favorire sinergie e aggiustamenti reciproci. In terzo luogo, il concetto implica un ripensamento anche della Unione economica e monetaria. Per funzionare correttamente, l’Unione sociale non può non rispettare i vincoli di compatibilità macro-economica. Ma necessita anche di un contesto di regole e di governance che non può essere rigido e immutabile, ma che deve essere anch’esso disponibile ad accomodare le esigenze derivanti da ciclicità temporali e shock asimmetrici, in modo da creare “complementarietà istituzionali”.
È troppo presto per trarre un bilancio e pronunciarsi sul grado di unità e coesione delle sinistre sui temi europei.
Forse la più vistosa lacuna politica del processo di integrazione è stata l’assenza di una “stella polare” di orientamento progressista, riconoscibile nei suoi contenuti chiave da tutti gli elettori europei.
I contenuti chiave sono oggi disponibili, ma non sono ancora stati interiorizzati dalle élite politiche dei vari Paesi. Ci sono due anni e mezzo prima delle prossime elezioni europee. Nel frattempo, ci sono molte scottanti questioni sulle quali manca una prospettiva riformista condivisa. In alcuni Paesi stanno peraltro rafforzandosi di nuovo le formazioni di destra. Il tempo stringe, c’è bisogno di uno scatto di reni.